L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli

L'Ombra Del Campanile - Stefano  Vignaroli


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bicipiti, i capelli lunghi raccolti dietro la nuca in una coda e la barba non rasata da qualche giorno, lo squadrò da cima a piedi. Anche Alì era robusto: al suo paese di origine, nell’alta valle del Nilo, era un campione di lotta libera, non c’era nessuno che riuscisse a batterlo, e l’uomo che aveva di fronte non era armato, per cui affrontò il suo sguardo e gli disse ciò che aveva da riferirgli.

      «Capisco, prendo i miei attrezzi e ti seguo. Aspettami qui, Palazzo Franciolini è a poca distanza, ma preferisco fare il tragitto in tua compagnia. In due potremmo affrontare meglio eventuali facinorosi.»

      Gallo sparì per pochi istanti all’interno della sua dimora e riapparve con una pesante borsa in pelle di vitello, che conteneva gli attrezzi del mestiere e che, a giudicare dall’aspetto, dovevano essere ben pesanti. Attraversarono la piazza passando accanto a gente che combatteva aspramente. Il chirurgo riconobbe un suo amico in uno jesino che veniva abbattuto a colpi di spada e fece per precipitarsi a soccorrerlo. Ma Alì fu lesto a tirarlo per un braccio e farlo desistere dall’intento. Non era proprio il caso di farsi notare e impegnarsi in una battaglia che aveva preso ormai una brutta piega per gli abitanti della città. Era più urgente soccorrere il suo giovane padrone. Alì e Gallo si infilarono nel portone di Palazzo Franciolini, che il moro provvide a sprangare dall’interno. Non avrebbe voluto più mettere il naso fuori da lì neanche per tutto l’oro del mondo, finché i combattimenti non si fossero placati, non sapendo che di lì a poco gli sarebbe stata imposta un’uscita per una commissione ancor più pericolosa di quella appena portata a termine.

      Alì osservò Gallo estrarre con delicatezza tre frecce dal corpo di Andrea, mentre Lucia, al suo fianco, era pronta a tamponare il sangue che fuoriusciva non appena l’arma acuminata veniva estratta, utilizzando panni freschi di bucato e applicando l’impiastro a base di erbe che essa stessa aveva preparato in cucina. L’ultima freccia, quella che attraversava il braccio del giovane da parte a parte non voleva saperne di uscire, per quanto Gallo tirasse con decisione.

      «Bastardi, hanno utilizzato frecce con rostri, vanno solo in avanti, non si riesce a tirarle indietro. Dovrò spezzare la coda a bilanciere e far fuoriuscire la freccia dal davanti, incidendo col bisturi la cute del braccio in corrispondenza del foro di uscita, ma rischierò di provocare un’emorragia fatale. Sei pronta a tamponare?»

      «Sì», rispose Lucia, «sono pronta!»

      Alì si rese conto che solo la forza della disperazione impediva a Lucia di svenire, anche se la vista e l’odore del sangue stavano ormai ottundendo i suoi sensi. Rendendosi conto che la ragazza non ce l’avrebbe fatta ad assistere ancora Gallo, Alì fece un respiro profondo e, non appena il chirurgo finì di estrarre la freccia, si fiondò a tamponare la copiosa emorragia. In meno di un istante, la pezza che teneva in mano si era tinta di rosso, e gli faceva percepire al tatto una sensazione viscida davvero sgradevole. In vita sua Alì non aveva mai provato nulla di simile, ma doveva farsi forza. Gallo strappò una striscia di lenzuolo, legandolo stretto attorno al braccio di Andrea, a monte della ferita. Il flusso di sangue si attenuò.

      «Non possiamo lasciare il braccio così stretto a lungo, o lo perderemo e sarò poi costretto ad amputarlo a causa della gangrena che si verrà di certo a formare. Ho bisogno di un potente coagulante e cicatrizzante, e il più potente è l’estratto di placenta umana. Alì, devi andare dalla levatrice, lei ha sempre a disposizione placente essiccate e…»

      «Ma, la levatrice abita fuori Porta Valle, è troppo pericoloso andare in quella zona!»

      «Allora credo che ci sarà poco da fare per il ragazzo.»

      Per fortuna, Alì conosceva un passaggio che, attraverso le cantine del palazzo, conduceva fuori delle mura, in prossimità del vallato, dove una corporazione di lavoratori del contado, guidati dalla famiglia Giombini, stavano realizzando un nuovo mulino per la molitura dei cereali. Come fuoriuscì dalla porticina che si apriva nelle mura di levante, ben nascosta da un folto cespuglio, si rammaricò alla vista del costruendo mulino, che era stato in parte raso al suolo dalla furia del nemico. Ma non poteva soffermarsi su quel particolare. La struttura semidistrutta gli offrì riparo dalla vista della soldataglia anconetana, che stava continuando a entrare in città da Porta Valle. Alì si diresse con decisione verso la chiesetta di Sant’Eligio, vicino alla quale abitava Annuccia, la levatrice. Quest’ultima, quando vide il moro, sul momento si impaurì, pensando che fra gli invasori ci fossero anche i saraceni, poi riconobbe Alì e lo fece entrare in casa.

      «Sei pazzo ad andartene in giro da queste parti? Stavo per farti secco con questo», gli disse Annuccia, mostrandogli l’alare del camino che teneva stretto in pugno. «Non sono certo intenzionata ad arrendermi e farmi stuprare da questa gentaglia!»

      «Ho bisogno di aiuto per il mio Signore, Annuccia. Il Capitano è stato ucciso dal nemico e il giovane Signore è gravemente ferito e ha urgenza di cure.»

      Dopo pochi minuti, Alì usciva dalla casa della levatrice, custodendo gelosamente ciò che quest’ultima le aveva affidato e per cui aveva dovuto sborsare ben tre denari d’argento. Riguadagnò la porticina nascosta e tornò nel palazzo dei Franciolini, consegnando a Gallo il prezioso involucro. Il chirurgo prese la placenta secca, la infilò in un calderone di acqua bollente, aggiunse alcune erbe, tra cui il raro Artiglio del Diavolo, e nel giro di una mezz’ora ottenne un impiastro denso, dall’odore sgradevole, che andò a disporre in un vaso d’argilla. Alì prese in mano il recipiente e seguì Gallo nella stanza di Andrea, dove Lucia stava finendo di ripulire dal sangue il corpo seminudo del giovane. Il chirurgo allentò il rudimentale laccio emostatico, mentre la ragazza apponeva sulla ferita un abbondante strato di impiastro, avvolgendo poi una fascia abbastanza stretta, ma non troppo, intorno all’arto offeso. Andrea, nella sua semi incoscienza, fece una smorfia di dolore, che rincuorò tutti i presenti: era ancora vivo, e vigile, anche se molto debole.

      «Più di questo non posso fare. I giorni prossimi avrà bisogno di assistenza continua, la febbre salirà, dovrete rinfrescargli la fronte con pezze bagnate e fargli ingerire infusi di corteccia di salice, sperando che riesca a superare non solo l’abbondante perdita di sangue, ma anche l’infezione che si verrà a formare. Se da questa ferita inizierà a fuoriuscire pus verde, potrete cominciare a dargli un addio. Se invece vedrete del pus giallo, quello che noi chirurghi definiamo “bonum et laudabile”, significherà che è in via di guarigione. Ma tu, Lucia, non rimanere qui a lungo: tuo zio presto noterà la tua assenza, e allora credo che per te saranno guai. Addestra il moro ad assistere il suo giovane padrone e ritornatene a casa.»

      «Sia mai!», replicò la giovane. «Starò accanto a lui finché non sarà guarito. È il mio promesso sposo e non posso certo abbandonarlo ora.»

      «Promesso sposo, dici? Mah, credo proprio che l’intento di tuo zio fosse quello di non farlo giungere avanti all’altare. Non sono un indovino, ma penso che la festa di oggi fosse tutta una farsa per far trovare porte aperte al nemico e morte per il Capitano del Popolo e il suo cadetto. Ti rendi conto che ora il tuo zietto è la massima autorità sia religiosa che politica di Jesi? Fai come vuoi, ma non credo che il Cardinale sia felice di saperti qui ad accudire il cadetto di casa Franciolini.»

      Gallo raccolse i suoi strumenti, li pulì con cura, li rimise in borsa, salutò la ragazza con un sorriso, e il moro proclamando un: «Salam Aleikum, la pace sia con te, fratello, e grazie per il tuo prezioso aiuto.»

      «Aleikum as salam, grazie a te per le preziose cure che hai offerto al mio padrone, sono certo che se la caverà.»

      «Forse dalle ferite» , sentenziò Gallo, chiudendo il pesante portone dietro di sé. «Ma non di certo dalle grinfie del Cardinale Artemio Baldeschi.»

      Nei successivi quattro giorni, Andrea rimase in preda alla febbre, accompagnata dai suoi brividi e dai suoi deliri. Lucia gli era stata vicina per tutto il tempo, facendo tutto ciò che le aveva consigliato Gallo e tutto quello di cui era a conoscenza per averlo appreso dalla nonna Elena. Nel delirio, Andrea spesso nominava la strega Lodomilla, parlava degli strani simboli disegnati nella piastrella del portale insieme al pentacolo a sette punte, parlava di un ebreo che lo aveva iniziato a una forma di conoscenza particolare, nominava a volte il re biblico Salomone, a volte una delle mogli dell’Imperatore Federico II, Jolanda di Brienne. Spesso pronunciava, tra altre


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