L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli
orafi della scuola di Lucagnolo. In quel momento, Lucia avvertì come un mancamento, sentì una fitta al cuore come se qualcuno lo stesse trafiggendo con un pugnale, o con una spada. Si accasciò sulla sedia perdendo conoscenza per qualche istante.
«Mia Signora, mia Signora, come vi sentite?» La voce della serva mora arrivava ovattata alle sue orecchie.
«Non è nulla, è solo colpa del caldo, di quest’afa maledetta, e dell’emozione. Già sto meglio.»
Lucia non aveva associato la sua sensazione a ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto a breve distanza dal suo palazzo, al suo amato Andrea.
Esecutrice della barbara aggressione di quel giorno fu la soldataglia di Francesco Maria della Rovere, duca di Montefeltro e già gonfaloniere della Chiesa. Poiché il nuovo Pontefice, Leone X, l’aveva spogliato del suo Stato, egli per vendicarsi aveva assoldato come mercenari soldati spagnoli e guasconi e, dopo aver saccheggiato molti castelli devoti al Papa, si era diretto verso Jesi, al fine di conquistare questa roccaforte papale, con l’aiuto degli anconetani guidati dal duca di Montacuto e grazie al segreto appoggio della più alta carica ecclesiastica della città, il Cardinale Baldeschi. Come promesso dal Cardinale, la soldataglia proveniente dalle colline a occidente di Jesi, trovò Porta San Floriano aperta, ebbe facile ragione delle guardie del Fortino, attaccate di sorpresa, e si trovò in breve nella Piazza del Mercato, proprio nel momento in cui il corteo del nobile Franciolini, proveniente da Via delle Botteghe, giungeva nella stessa piazza.
Il Franciolini e i suoi non erano pronti alla battaglia, non indossavano armature, stavano andando a una festa e avevano con sé solo armi leggere.
«Tradimento!», gridò Guglielmo scendendo da cavallo e affrontando uno spagnolo armato di spada con un corto pugnale. «Incatenate le strade, non lasciateli andare verso valle, o apriranno le porte all’esercito anconetano, e saremo stretti tra due morse.»
Solo con la forza delle braccia e il suo corto pugnale, aveva già atterrato due spagnoli, lasciandoli in una pozza di sangue. Guglielmo era un abile combattente ed era veloce a spiazzare il nemico. Non appena vedeva l’avversario titubante, gli piantava il coltello nel cuore, poi lo estraeva, puliva la lama sui suoi vestiti e ricominciava a combattere. Le avanguardie nemiche non indossavano infatti armature ed era facile aver ragione di loro. Ma i nemici uscivano da Via del Fortino a decine, a centinaia, come un fiume in piena i cui argini non riescono a trattenere le acque. Un balestriere spagnolo prese la mira e puntò la sua arma contro Andrea, che era ancora fiero in sella al suo cavallo. Il giovane si era trovato altre volte nel pieno della battaglia e non aveva dato peso al fatto che in quel momento non indossava un’armatura, ma un colorato abito di broccato. Fece impennare il suo destriero, per lanciarsi nella mischia, quando fu colpito alla coscia destra. Altre frecce raggiunsero sia il cavallo che il cavaliere. Andrea cadde al suolo, con almeno quattro dardi che lo trafiggevano. Il suo cavallo, colpito in pieno petto, rovinò senza vita sopra di lui. Cercò, senza riuscirci, di sgusciare via dalla massa del pesante animale, ma le forze lo stavano abbandonando. Guglielmo, accortosi del figlio atterrato, si girò verso di lui, distraendosi dalla tenzone e girando le spalle al nemico per andarlo a soccorrere. Vide le palpebre di Andrea abbassarsi, lo chiamò, ma non ebbe risposta. Capì che il suo cadetto stava ormai perdendo i sensi, forse stava per morire. Proprio in quel momento una lunga lama lo trapassò, penetrando da dietro la schiena, facendosi strada tra le costole, squarciando il cuore e fuoriuscendo dal petto, accompagnata da un potente fiotto di sangue. Guglielmo sbarrò gli occhi che, nel momento del trapasso, stavano ancora fissando il prode figliolo agonizzante.
Avuto facilmente ragione di quel piccolo manipolo di uomini, spagnoli e guasconi dilagarono per le strade della città. Alcuni risalirono Via delle Botteghe fino alla Porta della Rocca, sorprendendo i militi a guardia, uccidendoli e aprendo la porta. Altri scesero verso valle per aprire Porta Valle e Porta Cicerchia e favorire così l’ingresso in città dell’esercito anconetano, che da giorni non aspettava altro che quel momento. Seppur colti di sorpresa, gli abitanti cercarono di organizzare una difesa nell’interno del centro abitato, spronati da alcuni nobili, in particolare da Fiorano Santoni, che radunò subito uno squadrone di genti che, incatenate le strade come predisposto dal Capitano del Popolo, s’approntò a combattere il nemico tra le vie, i vicoli e le piazze. Ma quest’ultimo, forte dell’apporto degli anconetani, era troppo numeroso e gli Jesini, avviliti dalle grida e dal pianto delle donne e dei fanciulli, abbandonarono la difesa.
Soprattutto i mercenari al soldo di Francesco Maria Della Rovere erano assetati di razzia e gli abitanti, considerando che non avevano potuto salvare la patria, cercarono almeno di mettere in salvo i loro beni, ma anche in questo non ebbero successo: i gentiluomini ricchi vennero fatti prigionieri e le loro donne, che avevano cercato scampo, con i gioielli, nelle chiese, si videro raggiunte dagli spagnoli anche all’interno dei luoghi sacri, dove essi non disdegnarono di spogliarle di quanto di prezioso avevano addosso e di stuprarle. A un certo punto, una donna, tale Eleonora Carotti, dal portamento altero e maschio, riuscì a sferrare uno schiaffo a un guascone che le stava ponendo le mani nel seno per toglierle i gioielli che vi aveva nascosto e al contempo approfittare per palpeggiarla.
Si ritrovò tra lui e un altro gruppo di soldati spagnoli. Se il guascone schiaffeggiato era rimasto di stucco, senza reagire, gli altri non si erano persi certo d’animo, avevano atterrato la donzella, l’avevano spogliata dei suoi abiti e, assicuratisi che era una donna a tutti gli effetti, l’avevano violentata uno dopo l’altro, tenendole un coltello piantato alla gola. L’ultimo soldato, raggiunto il suo malsano piacere, affondò il coltello, sgozzandola senza pietà.
Il saccheggio di Jesi durò otto giorni, molti palazzi furono incendiati, alcuni con gli abitanti all’interno, legati perché bruciassero vivi dentro la loro abitazione, colpevoli del fatto che i saccheggiatori non avevano trovato abbastanza denaro o preziosi da portare via. Non ci fu alcun rispetto neppure per le cose sacre, né per i religiosi, e molti sacerdoti vennero torturati e martoriati, affinché confessassero in quali luoghi segreti avevano nascosto gli ornamenti delle chiese. Il saccheggio si estese a tutto il contado e nessun luogo, di città e campagna, venne risparmiato.
Palazzo Baldeschi, che era rimasto sbarrato per tutto il tempo, l’ottavo giorno aprì le porte al Granduca Francesco Maria della Rovere e al Duca Berengario di Montacuto, che venivano accolti a colloquio dal Cardinale. Quest’ultimo si era infatti arrogato il diritto di trattare la resa con gli avversari, non essendo più presente in città autorità civile o ecclesiale più alta in grado di lui.
Dopo che i servi ebbero offerto vino di visciola e dolcetti a base di uva sultanina, a un cenno del Cardinale, si ritirarono chiudendo i tre uomini da soli nello studio.
«Avete superato ogni limite. Gli accordi erano che non avreste trovato ostacoli e avreste dovuto uccidere il Franciolini e il figlio, impadronendovi della città. Una facile conquista, invece per giorni e giorni avete seminato terrore, distruzione e morte», tuonò il Cardinale rivolto ai due Duchi.
«Nessun esercito che si rispetti, soprattutto se costituito da mercenari, rinuncia al bottino di guerra», replicò pacatamente il Della Rovere, concentrando il suo sguardo sull’unghia del dito mignolo della mano destra, forse rammaricandosi del fatto che durante i combattimenti questa si era spezzata. «Noi abbiamo mantenuto la parola data. Ora Voi mantenete la vostra, e ci ritireremo in buon ordine, lasciandovi Signore indiscusso di questa città.»
«E sia!», continuò il Baldeschi, ingoiando il rospo, e comunque soddisfatto in cuor suo di come era andata l’operazione. Se parecchi concittadini ci avevano lasciato la vita, peggio per loro, non era poi un grosso problema. «Come promesso, intercederò presso il Santo Padre affinché a Voi, Granduca Della Rovere, vengano restituite terre e titolo. Potrete ritirarvi a Urbino ed essere rispettato per sempre dai vostri sudditi. Per quanto riguarda Ancona, caro Duca, entro un mese farò versare nelle casse della vostra città diecimila fiorini d’oro, che serviranno ad ampliare e fortificare il porto, ma dovrà essere garantito lo scalo commerciale ai mercanti della città di Jesi. E ora, ritirate i vostri eserciti.»
Francesco Maria Della Rovere diede finalmente l’ordine alle sue truppe di abbandonare la città. Gli invasori