L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli

L'Ombra Del Campanile - Stefano  Vignaroli


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sonno come le scene di un romanzo a puntate. Erano talmente nitide che Lucia si impersonava nella sua omonima antenata come stesse rivivendo una sua vita passata, da un lato come interprete, dall’altro come spettatrice.

      Suggestione, solo suggestione!, ripeté per l’ennesima volta la giovane a se stessa. Tutta colpa dei libri su cui sto lavorando e delle parti mancanti della Storia di Jesi. Il mio inconscio mi fa inventare la parte mancante del libro!

      Tirò due profondi respiri, raggiunse una panchina, si mise seduta e osservò che la facciata del palazzo era lì, integra e indenne. Decise di attraversare la Piazza, raggiungere il bar e prendersi un espresso forte, prima di entrare al lavoro. Quel diversivo le avrebbe costato un ritardo di qualche minuto, ma tanto il decano non arrivava mai prima delle nove. Trangugiato il caffè e uscita dal Bar Duomo, in pochi passi raggiunse il lato della Piazza in cui confluiva Via Pergolesi. Alla sua sinistra lo sbocco della salita di Via del Fortino, alla sua destra l’inizio di Costa Lombarda, attraverso la quale si poteva raggiungere la parte a valle della città. Proprio sotto i suoi piedi, su una grossa piastrella in bronzo era incisa la mappa dell’antica Aesis. Poco più in là la scritta in varie lingue, compreso l’arabo, sulle piastrelle bianche lungo tutto il perimetro della piazza: “Il 26 dicembre 1194 nasce in questa Piazza l’Imperatore Federico Secondo di Svevia”. Ancora un giramento di testa, ancora una visione. Ora la piazza non aveva più l’aspetto attuale. La fontana dei leoni, con l’obelisco, non campeggiava più al centro, ma lo spazio era del tutto libero. Il Duomo, dal lato opposto a quello in cui si trovava, era una costruzione bianca, di dimensioni più esigue rispetto a quella che era abituata a vedere, dallo stile gotico, con guglie e archi a sesto acuto, una specie di Duomo di Milano in piccolo. Il campanile era alla destra della facciata, isolato e in posizione avanzata rispetto alla chiesa. Il Palazzo Baldeschi, sulla sinistra rispetto alla Cattedrale, era diverso, più massiccio, più sontuoso; la facciata era sovrastata, a mo’ di abbellimento, da tre archi in pietra, presi da chissà quale antica costruzione romana e messi lassù in maniera posticcia, come elemento decorativo, ma di nessuna utilità. La statua della Madonna col bambin Gesù in braccio già era presente in una nicchia tra le finestre dell’ultimo piano, mentre non c’era traccia dei quattro “telamoni” a sorreggere la balconata del primo piano. Anzi la balconata, anche se non del tutto assente, era assai esigua rispetto a quella che era abituata a vedere. Tutto il lato destro della piazza era occupato, in luogo dei Palazzi Vescovili e di Palazzo Ripanti, da un’enorme fortezza, una specie di castello, ornato dalle tipiche archettature e dai merli ghibellini a coda di rondine. Sul lato sinistro la Chiesa di San Floriano con la sua cupola e il suo campanile e il palazzo Ghislieri, non ancora terminato, circondato dalle impalcature dei muratori. Lucia gettò uno sguardo verso l’inizio di Via del Fortino, dov’era la bottega di un tintore, davanti alla quale l’artigiano aveva acceso un fuoco per mettere a bollire l’acqua in un pentolone incrostato di nerofumo. Una ragazzina si era avvicinata troppo al fuoco e un lembo del suo vestito si era incendiato. In breve la ragazza si era trovata avvolta dalle fiamme. Lucia avrebbe voluto correre verso di lei per soccorrerla, ma non riusciva a muovere un passo. Inorridì, sentendo risuonare nelle sue orecchie le grida disperate della ragazza. Poi una, due gocce di pioggia, uno scroscio, le fiamme si spensero. La sensazione di non toccare più i piedi per terra. Lucia era distesa sul selciato. Quando riaprì gli occhi vide l’azzurro del cielo, un cielo dal quale non poteva essere caduta neanche una goccia di pioggia. Un uomo distinto, il vestito elegante, una valigetta ventiquattrore in mano, cercò di aiutarla a rialzarsi.

      «Tutto bene?»

      «Sì, sì», e rifiutando qualsiasi aiuto, Lucia si rialzò in piedi. «È stato solo un mancamento, uno sbalzo di pressione. Ora è tutto a posto, grazie!»

      Attraversò la piazza, che ora aveva l’aspetto consueto, di buon passo, per cercare di raggiungere il posto di lavoro il prima possibile, prima che il decano potesse accorgersi del suo ritardo, ma con ben stampate nelle mente le immagini che aveva vissuto per qualche attimo.

       Suggestione, solo suggestione, nient’altro che suggestione. Non c’è altra spiegazione logica per i sogni e adesso per le visioni!

      Eppure, una voce dal subconscio sembrava volerle dire che erano ricordi, che erano episodi che aveva vissuto in un’altra vita, in un remoto passato, come persona diversa, ma che portava sempre lo stesso nome: Lucia.

      Entrò nel palazzo, salì lo scalone che conduceva al primo piano e avviò il computer della sua postazione di lavoro. La tentazione di dare una sbirciata ai suoi profili nei vari social network era resa vana dalla consapevolezza che quel bastardo del decano verificava, tramite il server, il file log del suo computer e la rimproverava se si era concessa di navigare in internet per motivi non legati all’attività lavorativa. Pertanto aprì il foglio di lavoro di Excel in cui andava a classificare i testi e il file di Access su cui registrava i dati per avere un database completo della biblioteca. Ogni testo andava poi scannerizzato e messo in memoria su file PDF, da caricare sul sito web della fondazione, per la successiva consultazione. I testi su cui stava lavorando in quei giorni, e che erano forse stati il motivo scatenante i suoi sogni e le sue recenti visioni, erano una “Storia di Jesi” edita dal Manuzi, proprio quel Bernardino Manuzi che nel XVI secolo aveva la stamperia nel palazzo in cui lei aveva preso dimora, e un libercolo, la cui autrice era Lucia Baldeschi, dal titolo “ Principi di medicina naturale e guarigione con le erbe”. Poi aveva sul tavolo un manoscritto di poche pagine, secondo lei attribuibile anch’esso a Lucia Baldeschi, che cercava di descrivere il significato e la simbologia di un particolare pentacolo a sette punte. Erano tutti e tre dei veri rompicapi, e Lucia non si sarebbe data per vinta finché non avesse sviscerato gli arcani che si nascondevano dietro ognuno di quei testi. “La storia di Jesi” era davvero interessante, un lavoro iniziato da Bernardino Manuzi, tipografo in Jesi, sulla base di documenti antichi e di tradizioni orali, e portato a termine anche grazie al contributo di altri autori. Sul suo tavolo aveva una copia originale del libro, stampata dal Manuzi stesso, a cui erano state strappate diverse pagine, chissà in quale epoca remota, chissà da chi, chissà per quale motivo. Proprio le pagine che si riferivano a un periodo doloroso della storia di Jesi, dal 1517 al 1521, periodo segnato dal “sacco” di Jesi e dal governo del Cardinale Baldeschi che, grazie al fatto di essere a capo del Tribunale dell’Inquisizione, aveva perseguitato e fatto giustiziare molti individui solo perché ostacolavano il suo potere. E Lucia Baldeschi era sua nipote. Uno zio inquisitore e una nipote che si dedicava alla medicina naturale e alla cura con le erbe, considerate a quel tempo pratiche stregonesche. Come potevano convivere e forse abitare nello stesso palazzo? Il fatto che gli scritti di Lucia Baldeschi fossero lì, faceva propendere per la teoria che vi avesse abitato, e di sicuro quella era stata anche la dimora del Cardinale. Il Tribunale dell’Inquisizione aveva sede proprio lì vicino. All’inizio del XVI secolo, proprio per volere del Cardinale, era stato trasferito dal convento di San Domenico al più comodo complesso di San Floriano, mentre il Torrione di Mezzogiorno era rimasto sede delle prigioni in cui venivano trattenuti e torturati gli inquisiti. Chissà di che cosa trattavano quelle pagine asportate del libro; forse vi veniva riportata una scabrosa storia in cui lo zio accusava la sua nipote di stregoneria, la faceva rinchiudere nelle segrete del Torrione di Mezzogiorno, o in quelle più comode del Complesso di San Floriano, la faceva torturare e infine bruciare al rogo sulla pubblica piazza. Certo, questa storia avrebbe infangato la memoria del Cardinale Baldeschi, e così qualcuno della famiglia avrebbe strappato quelle pagine per farne perdere le tracce.

      Cominciava a far caldo, e Lucia aprì il finestrone della stanza, proprio quello che dava sulla balconata sostenuta dalle quattro strane statue, avendo cura di chiudere la grande zanzariera, in modo che entrasse aria, ma non fastidiosi insetti. In quel mentre fece la sua comparsa il decano, che rimproverò Lucia con lo sguardo, uno sguardo inquisitore, che sembrava voler interpretare nel gesto di aprire la finestra il desiderio contemporaneo, da parte della giovane, di volersi accendere una sigaretta.

      Non ti darò certo soddisfazione, vecchia cariatide! Non fumo di sicuro qui dentro, se non altro per non sopportare i tuoi improperi, ma anche per rispetto dei preziosi oggetti, dei libri, degli stucchi, dei quadri, che sono conservati qui dentro, rimuginò tra sé e sé Lucia, mentre notava la somiglianza tra il decano, il quasi settantenne Guglielmo Tramonti, e il Cardinale Artemio Baldeschi, così come lo vedeva ogni giorno in un ritratto


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