Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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Buona sera, signora contessa.

      — Buona sera, signor conte. A domani.

      — A domani.

      La Beppa scese innanzi adagio, giù per la scala, ripida, stretta e oscura, tenendo alto il lume col braccio levato.

      Quando fu sulla porta di casa, Ariberti tolse dalla tasca interna dell'abito un portasigari di pelle nera con una vistosa corona di conte nel mezzo: poi, dal portasigari, un virginia: ne cavò la paglia che ripose nell'astuccio, lo accese al lume della Beppa, tirò in fretta due o tre sbuffate di fumo per vedere se andava bene, e dopo, dal medesimo portasigari, levò un mozzicone che porse alla donna:

      — To'... lo darai a Menico.

      Menico era il cocchiere, il cameriere, il porta acqua, il caffettiere, lo spaccalegna di casa, e quando aveva due minuti di tempo, anche l'amante della Beppa.

      — Grazie, signor conte!

      — Bon dì.

      — Serva sua.

      E la Beppa, sbatacchiata la porta dietro al giovanotto, tirò tanto di catenaccio.

       Indice

      Il conte Eriprando degli Ariberti quella notte non aveva sonno: invece si sentiva in cuore una gaiezza insolita e nelle gambe una elasticità, una voglia di camminare che lo fece andare a zonzo per più d'un'ora. La gioia tutta nuova che lo aspettava al domani, quel viaggio con Elisa, quelle due o tre settimane che passerebbe con lei in riva al mare, lo rendevano l'uomo più beato della terra.

      In quell'azzurro c'era però un punto nero; anzi, per essere esatti, bisogna dire che ce n'erano due, quantunque uno più piccino dell'altro.

      Il punto grande, lo scarabocchio, era quella musona della contessina Cecilia; il punto piccolo, quello screanzato di Gegio. Da un'altra parte, sola con lui, la contessa Elisa non ci sarebbe andata, a Venezia: ella vi andava per tener compagnia alla figliuola, e per la salute del suo nipotino: ed anzi, quando lui e lei, negli amorosi colloqui delle serate primaverili, vagheggiavano quella giterella come il sogno incantevole d'una notte d'estate, tutte le loro speranze erano sempre riposte nelle scrofole del bambinello.

      Dopo d'aver girato in su e in giù, per straducce buie e deserte, alla fine dovette pure decidersi a rincasare. Rallentò il passo, e rimpianse il mozzicone che aveva donato a Menico, perchè il suo virginia era consumato.

      Il conte Eriprando abitava molto lontano dalla contessa Navaredo, in una viuzza modesta, in una casetta dall'aspetto meschino e dove il fitto, che si pagava ogni semestre, era proprio una miseria. Quando vi giunse, prima di metter la chiave nella toppa, levò il capo e guardò una finestrella del secondo piano: era spalancata e ne usciva uno sprazzo di luce.

      — La mamma è ancora in piedi, — disse fra sè, nell'aprire.

      Non poteva sbagliare. Il lume non era certo quello della serva, perchè la contessa degli Ariberti serve non ne aveva, se non si vuol contare una donnetta che andava da lei la mattina a sbrigare le faccenducce più umili.

      — Sei ancora alzata? — disse il conte entrando nella stanza della mamma.

      La vecchierella era intenta a stirare sopra una gran tavola di legno greggio, e tutto all'intorno, sul canapè, sulle sedie, sul cassettone, si vedevano, disposte con cura, delle mutande, delle calze, delle camicie, dei solini e dei polsini finti: grande amarezza questa del conte Eriprando, il quale non vedea l'ora d'esser capo-ufficio per avere le camicie coi polsini e il collo tutto attaccato. Sua mamma, poveretta, aveva tentato di fargliene una: ma ci perdette intorno una quindicina di giorni senza potervi riuscire: il solino, non c'era caso, faceva borsa da una parte o dall'altra!....

      Nella stanza piccola, bassa, faceva un caldo da soffocare, sebbene la finestra fosse aperta ma di fuori c'era scirocco, e di dentro due lucerne di petrolio infocavano la stanza colla loro luce sfacciata e rossastra. Eriprando cominciò subito a sudare; invece la vecchiarella secca, piccina, che lavorava in quel forno dalle otto della sera, non sudava affatto.

      — Mi trovi alzata perchè non ho sonno; già, con questo caldo, anche a voler dormire, non si può. E poi, ti occorre la roba per domattina, e io, lo sai bene, preferisco andare a letto tardi, piuttosto di essere costretta a levarmi presto.

      La buona donna mentiva adesso col suo figliolo. Sapeva bene lei che, per quanto fosse andata tardi a letto quella sera, avrebbe sempre dovuto alzarsi per tempo il giorno dopo. Il viaggio del contino la affaticava da un mese. Aveva dovuto provvederlo di biancheria e riaccomodargli quella vecchia: aveva dovuto pulire, sbattere, rammendargli i panni, e solamente attorno all'abito nero ci aveva sciupati sette giorni e perduto un occhio e mezzo. Ma, e d'altra parte come si fa?... Il conte Eriprando degli Ariberti, partendo da Vicenza per le bagnature colla contessa Elisa Navaredo e la contessina Cecilia D'Abalà, non poteva andare come un pitocco qualunque.

      Gli Ariberti erano una delle più antiche famiglie di Vicenza: ed è forse per questo che la troviamo così vicina a morire di consunzione. Il padre del contino Eriprando, il conte Eutichiano, era stato un impiegatuccio a duemila cinquecento; e in un momento di debolezza e con tre semestri di fitto in arretrato alla gola, aveva commesso un matrimonio morganatico, come diceva lui, colla figlia della sua padrona di casa, l'Orsolina, che fu poi così compresa delle illustri nozze, alle quali era stata assunta, da camminare in punta di piedi, quando si trovò gravida, per paura di scomodare il nobile rampollo che il conte suo marito s'era degnato di affidarle per la gestazione. Con legittimo orgoglio del conte Eutichiano, che vedeva così continuata la nobile prosapia, l'erede (erede per modo di dire, che non c'era proprio niente da ereditare) fu un maschio e subito gli misero nome Eriprando. Era l'Eriprando nono o decimo della casa, e tutti i predecessori che portarono prima quel nome, in sei o sette secoli, avevano avuto in mano, l'uno dopo l'altro, i destini della città.

      Per l'Orsolina, il conte figlio era qualche cosa di sacro. All'affetto materno ella univa nel suo cuore la religione, il culto che professava all'ultimo discendente degli Ariberti, e facendogli da serva, credeva in buona fede di non fare nulla più del suo dovere.

      Il conte Eutichiano morì quando il bambino non aveva più di tre o quattro anni. Alla vedova ed al pupillo non rimase altro per vivere che la magrissima pensione del marito, la biancheria e il mobilio bastante per quattro stanze: cominciarono col subaffittarne due, e n'ebbero così un altro cespite di entrata.

      Mamma Orsolina si tiranneggiava, si misurava, come si suol dire, il boccone di pane, e tutto ciò perchè Prandino non mancasse di nulla. Lei faceva colazione con una fetta di polenta, se ce n'era: ma Prandino, quando andava a scuola, avea il suo canestro per la merenda sempre ben fornito. L'Orsolina la si vedeva, a ricordo d'uomo, con una vesticciuola di percalle a quadrettoni caffè, linda, pulita, ma tutta a rattoppi, che pareva un mosaico: invece il camiciotto di Prandino era novo fiammante, la biancheria fina, le scarpette lucide e scricchiolanti.

      Quando venne il momento di dover pensare ad una professione pel contino Eriprando, la buona donna si sentì stringere il cuore; ma, vedendo anche lei che, senza far nulla non avrebbe potuto vivere, volle almeno ch'egli s'avviasse all'avvocatura.

      Lo fece studiare..... e trovò modo, Dio solo sa con quanti stenti e con quanti sacrifici, di mantenerlo all'università: ma quando già era dottore, Prandino stesso comprese da sè che anche colla laurea avrebbe finito copista in qualche studio: il genio forense gli mancava del tutto. Allora, facendosi più sentito il bisogno di guadagnare, si decise anche lui a trangugiare l'amaro calice e cercò un impiego nelle ferrovie. Adesso che lo abbiamo imparato a conoscere, aveva già mandato le sue carte, aveva passato benino gli esami.... ma continuava ad aspettare l'impiego, che si prometteva e non arrivava. Mamma Orsolina, del resto, non disperava. Era sicura che col suo nome Prandino avrebbe fatto una bella carriera e figurandoselo commendatore e capo-traffico, non lo vedeva, per il momento, alla vendita dei biglietti ed alla spedizione delle merci. Certo che se il parentado degli Ariberti lo avesse voluto aiutare.... ma l'Orsolina non si lamentava di nessuno. I parenti non le erano


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