Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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E.... lei.... che cosa gli ha risposto?

      — Che lo vedrò molto volentieri.

      Ariberti si sentì opprimere il petto dall'affanno. Volle parlare, ma non potè dire due parole. Finalmente dopo un buon tratto che durava la scena muta, si alzò e stese la mano alla Contessa per accomiatarsi.

      — Va via?... Così presto?... E con questo tempaccio?...

      — Ci son venuto anche coll'acqua.

      — Ma allora, secondo lei, pareva che il cielo si rischiarasse.

      E l'Elisa tornò a ridere fissandolo, con un riso ch'era tutto un'amabile canzonatura.

      Egli continuava sempre muto, sempre con tanto di muso a stenderle la mano, la Contessa gliela strinse: poi, con una certa violenza, lo tirò vicino, e se lo fece sedere sopra una seggiola accanto.

      — Andiamo, da bravo, si consoli. — Oh!... Per me....

      — Ho scritto a Del Mantico di non venire, perchè di giorno in giorno aspetto mia figlia. È contento adesso?

      Ariberti non lo volle dire, ma lo lasciò intendere anche troppo.

      Tuttavia nelle sue notiziole la Contessa non era molto esatta. Era stata lei a scrivere al maggiore di venirla a trovare, e il maggiore invece le avea risposto che non veniva, con una lettera piuttosto fredduccia, scusandosi coi soliti affari di servizio, e, se si deve dir proprio tutto, questa lettera avea molto infastidita la contessa Navaredo.

      — Dunque.... — e Prandino, che adesso ritrovava tutta la sua vivacità, per il gran peso che si era levato da dosso, si tirò tanto vicino alla Contessa, da toccarle le vesti colle ginocchia. — Dunque.... se gli ha scritto così.... vorrebbe dire.... che un po' di bene me lo vuole?...

      — Veramente, potrebbe anche non volere dir nulla di tutto questo!...

      — La prego, la scongiuro, Contessa, mi dica che è stato per farmi un piacere che gli ha scritto di non venire.

      — Sì.... perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.

      Elisa cominciava a trattarlo col voi; ma bisogna compatirla, povera signora. L'Ariberti, quando si metteva in orgasmo, era un gran bel ragazzo, con quelle sue guance fresche, rosate, come una fanciulla; i capelli neri, folti e spettinati; e poi, aveva delle mossettine, degli atteggiamenti, certe arie da fanciullo viziato, che riuscivano molto attraenti, specialmente per una donnetta come l'Elisa, che, adesso, anche nell'amore, si godeva a fare un po' le parti della mamma: “....perchè mi siete amico e non voglio vedervi col muso lungo.„

      — Per questo solo?

      — Sicuro!...

      — Non vi credo. Gli avete scritto di non venire perchè.... perchè mi volete un po' di bene.

      — Torniamo da capo?

      — Ve ne supplico, siate buona, non mi fate soffrire così. Già lo capisco, lo vedo, lo sento che mi volete bene; dunque non siate cattiva, ditemelo, mi volete bene, non è vero?

      Elisa lasciò cadere il ricamo sulle ginocchia, e piegandosi un po', fissò il giovane con un senso d'affetto pieno di compiacenza, che le trapelava dagli occhi.

      — Bambinone!

      — Mi volete bene?...

      — No!

      A questo punto, per un perchè forse più patologico che psicologico, la Contessa mutò d'un tratto. Da' suoi occhi si dileguò ogni espressione di tenerezza; divenne seria, sembrò quasi irritata, si levò da sedere e andò ad appoggiarsi, ritta, senza più dire una parola, alla vetrata che metteva nel giardino.

      L'altro, indispettito, si abbottonò l'abito nero, quello stesso che più tardi fu rimesso a nuovo da mamma Orsolina per il viaggio di Venezia, poi cominciò a dondolarsi sulla sua seggiola.

      Stettero un pezzo così: lei, pensosa, immobile a guardar l'acqua che cadeva; lui, tutto nervoso e sconvolto, a sfogare la stizza facendo l'altalena.

      Però, dopo qualche tempo, sebbene Ariberti non ne potesse proprio più, fu la prima l'Elisa a parlare.

      — Conte, conte! Venga qui.... Guardi com'è bello!

      Di fuori, continuava a piovere; ma la pioggiolina s'era fatta più minuta, il cielo più chiaro, e una larga striscia di sole faceva brillare sulle foglie degli alberi e dei fiori, sui fili d'erba e sui bianchi sassolini del giardino, le gocciole dell'acqua caduta, così che parevano gemme, mentre di lontano, l'arcobaleno squarciava co' suoi vivaci colori la tinta grigiastra, uniforme, disegnandosi largamente di sotto a un gran lembo d'azzurro.

      — Conte!... Venga qui!

       Prandino si alzò, ma rimase affatto insensibile a tutte quelle bellezze della natura.

      — Perchè torna a trattarmi col lei adesso?

      — Oh che, forse non le ho sempre parlato in terza persona?

      — Sempre no; e lei lo sa bene.

      — Allora le domando scusa della libertà che mi son presa senza accorgermene. Venga.... Venga con me: andiamo là, sotto il capanno.

      L'Elisa, in mezzo a tutti quei profumi che la pioggia aveva sbattuti dai prati e dalle aiuole, aspirando quelle sbuffate d'aria fresca, frizzante, si sentì correre in tutto il corpo un senso di piacere, un benessere, un'elasticità, una contentezza che le penetrava nell'anima, come se quella giornataccia di autunno si fosse mutata in un bel giorno di maggio, co' suoi fascini e colla sua salute. Allora, le saltò l'estro di fare un po' la bambina, raccolse le vesti e si mosse per attraversare il giardino, sotto l'acqua, così senza ombrello, colla testa scoperta e, ridendo, invitò l'altro a seguirla.

      — Venga, dunque, andiamo!

      — Me lo dica in un altro modo....

      — Ebbene, venite! bambinone.

      Ciò detto, senza aspettar la risposta, Elisa si pose a correre verso il capanno, chiudendo gli occhi, gittando dei gridi, delle risate vibranti, scotendosi e fremendo sotto quell'acquerugiola che la bagnava tutta. Arrivata sotto il capanno, non aveva quasi di bagnato altro che gli stivalini, sembrava che non fosse corsa, ma volata là dentro. Prandino, invece, che le aveva tenuto dietro, era tutto inzaccherato. E ancora col respiro affannoso, tornò daccapo per farsi dire s'ella lo amava, con quell'insistenza ostinata e petulante, che alle donne non dispiace quasi mai, e agli uomini giova quasi sempre.

      — Ditelo che anche voi mi amate un po'... Già, il dirlo, non vi costa nulla.

      — Voi pensate che non mi costerebbe nulla?...

      — Vi giuro; vi giuro sul mio onore.... Sarebbe sempre la stessa cosa.

      Non era più lei, ora; era Prandino che ripeteva quell'antifona della sera innanzi.

      — No, no. È meglio non dir nulla; è più sicuro. Com'è carino, come si sta bene qui sotto; non è vero?

      E la Contessa, che voleva fingere anche con sè stessa d'aver vent'anni, tornò a ridere, a ninnolarsi, stancandosi le dita per legare attorno al capo il suo piccolo fazzolettino di trina.

      La pioggia batteva, crepitava sulle foglie della vite e della mortella con uno scroscio lento e continuo, ma di sotto però non ne cadea se non qualche rara gocciola qua e là, che, ingrossata, si staccava dal fitto tessuto del capanno.

       — Che gusto a star qui sotto, non è vero, Conte?

      La contessa Elisa riebbe allora uno dei suoi bei momenti. Ritornò per un istante com'era dieci anni prima. La fatica di quella corsa le aveva colorite le guancie, il brivido dell'acqua, l'allegrezza che si sentiva intorno, l'amore caldo, appassionato di quel bel giovanotto bruno, forte, sano, che, pauroso, tremava d'amore dinanzi a lei, tuttociò le metteva addosso un brio, una lena, un calore che la faceva proprio ritornar giovane per davvero.

      Volendo staccare un piccolo fiorellino da un ramo di mortella, si bagnò le mani e, alcune gocce, scosse dall'urto, le caddero sul


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