Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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lei ne avesse colpa! Più di ogni altro, poi, lo metteva fuori di sè un capitano di cavalleria, un riccone, il marchese Del Mantico, che teneva sempre dietro all'Elisa, come la sua ombra.

      In tal modo, avvelenandosi senz'alcun costrutto l'esistenza e godendosi con poco sugo delle gioie immaginarie, il nostro Prandino diventò a poco a poco il conte Eriprando: ma l'ideale del ragazzo rimase pur sempre l'amore e il dolore dell'uomo.

      Aveva vent'anni, quando si fece presentare in casa Navaredo. Era goffo, timido, impacciato; tutti lo deridevano senza pietà, e la Contessa più di tutti. Solamente due anni dopo, quando il marchese Del Mantico fu promosso a maggiore e cambiò reggimento, solamente allora il conte Eriprando cominciò ad essere preso in considerazione, ed ebbe in regalo la fotografia, portrait-album, con effetto di chiaro di luna.

      Però egli lasciò correre del gran tempo, prima di spiegarsi intorno a' suoi sentimenti. Non osava.

      Tutti i giorni che si recava dalla Navaredo, giurava a sè stesso di aprirle il cuore, di spiattellarle la sua brava dichiarazione; — ma quando era là, gli mancava il coraggio e la parola e apriva la bocca soltanto quand'era tornato via, per darsi del balordo, dell'imbecille e della marmotta.

      Egli non la lasciava mai, taceva molto e la guardava sempre. Qualche volta la contessa Elisa, che aveva capito quanto foco covasse dentro per lei quel bel giovanotto balbettante, confuso, timoroso, che le riempiva la casa di amorini e perdeva tutto il giorno a dipingerle delle corone da contessa sui ventagli, le scatole e il parasole, qualche volta si godeva a metterlo alle strette; ma lui zitto, ammutoliva subito, abbassava gli occhi e tutto rosso parea rannicchiarsi nel suo abito nero, come una lumaca dentro al guscio.

       Ma si sa bene, tira, tira, la corda si rompe.

      Nell'autunno prima del viaggio di Venezia, il conte Eriprando era stato, come il solito, invitato dal suo compare a passar un mesetto in campagna: fortuna volle che la contessa Elisa prendesse appunto in affitto un villino nelle vicinanze e.... sfido io! si vedevano sempre, facevano delle lunghe passeggiate insieme, sedevano stanchi, soli.... e senza alcun sospetto sotto l'ombra di un albero o fra i cespugli delle giovani quercie, e accadde.... quello che da un pezzo doveva accadere. Un giorno, ch'egli le avea detto a memoria il Guado dello Stecchetti, quando l'ebbe finito, colla scusa che questa poesia era carina tanto, concluse dicendole che anche lei era bionda, bella e che lui l'amava, che da molto tempo

      “Glielo voleva dire e non l'osava.„

      Elisa lo ascoltò senza punto punto adirarsi; ma finse di non capire che l'amico le parlasse sul serio.

      Prandino allora ripetè l'assalto, anche più scopertamente; ma la Contessa d'un tratto pareva avesse perduto il suo spirito, e continuava a non capir nulla. Allora, quell'altro le disse, tremando, che le voleva bene, e lei a rispondergli che mentiva: e il giovanotto a ripeterle ch'era innamorato fin da quando, si può dire, era ancora un ragazzo e che la pregava, la scongiurava d'esser buona, di lasciargli intendere che anche lei non era insensibile e che di tutto quel gran bene gliene ricambiava un zinzino.

      — Eppoi?.... quand'anche glielo dicessi?.... A che pro?.... Tanto e tanto, sarebbe sempre la stessa cosa.

      L'Elisa disse queste parole lentamente, facendosi seria, quasi mesta, alzando gli occhi al cielo con sospiri, con fremiti, che la scuotevano tutta.

      Prandino che, sparata la bomba, sentiva crescere il coraggio coll'odor della polvere, le si fece più vicino e le prese le mani: ma lei non volle, si ritrasse, si schermì, fe' forza per liberarsi dalle strette del giovane; in fine, terminò col tagliare il male nel mezzo, e tirò via una mano, l'altra abbandonando a quelle carezze insensate.

      Ariberti, preso l'aire, parlava adesso per tutto il tempo che aveva taciuto. Non le domandava che una parola, un segno, un indizio qualunque che gli facesse capire ch'ella gli voleva un po' di bene.

      — E dopo?.... Quand'anche glielo lasciassi intendere?.... Già sarebbe sempre la stessa cosa.

      E l'Ariberti ad insistere, a ripeterle che lo renderebbe l'uomo più contento, più beato del mondo; ch'egli non le domandava la sua pace, ch'egli non avrebbe turbato la sua quiete, la sua coscienza: ch'egli da lei non voleva altro che un sorriso, che una parola, e dopo avrebbe taciuto di nuovo, come taceva da tanti anni: ma che ne sarebbe stato così lieto, così superbo, perchè era solamente un po' del suo cuore ch'egli voleva ottenere, perchè egli desiderava soltanto di dominare ne' suoi pensieri, perchè egli non aspirava se non al possesso dell'anima sua, perchè l'amore ch'egli sentiva per lei, potente, appassionato, era però alto, era però nobile e puro, come l'amianto che la fiamma purifica e non consuma.

      L'Elisa a tanta retorica, sempre con la testa china, sempre seria, sempre mesta, cogli occhioni sempre fissi, immobili, quasi la tenesse assorta l'idea d'un lontano pericolo, continuava a ripetere, come ritornello:

      — E poi?.... Quand'anche glielo lasciassi capire?.... A che pro?.... Sarebbe poi sempre la stessa cosa!....

      Il giorno dopo pioveva, e la passeggiata non si potè fare.

      Non tralasciarono però di vedersi. Il conte Eriprando andò a farle visita e trovò la Contessa nel salotto terreno, che ricamava certe strisce di panno, destinate col tempo a diventare, unite insieme, un tappeto: ma che intanto si potevano paragonare alla famosa tela di Penelope, non che per fatto loro avessero costretto nessuno ad aspettare, ma perchè, invece, gli adoratori della Contessa, uno dopo l'altro, dovevano tutti godersele sotto il naso, finchè durava l'amore.

      Il salotto terreno, con un divano, un tavolino rustico e due o tre seggiole di paglia in tutto, era una specie di sala di passaggio, con due porte vetrate, l'una di faccia all'altra. La prima dava nel giardino e avea di fronte un fitto capanno di mortella intrecciata colla vite selvatica: la seconda metteva invece sul piccolo orticello della villetta.

      Era una giornata d'autunno, bigia, uniforme, senza uno spacco di cielo fra quella tinta squallida, infinita, senza neanche il fantastico rincorrersi delle nubi che si accavallano minacciose.... Era una giornata bigia, uniforme, monotona.

      La pioggia col suo susurro lento e continuo, in quel silenzio di ogni anima viva, sembrava avesse isolato il salotto lontano dal mondo, fra i riflessi del verde delle piante, dell'erba, delle foglie, fatto più cupo dall'acqua che cadeva; quella pioggia, quella luce scialba, il lontano brontolìo del tuono mettevano addosso una melanconia, una tristezza, che rendeva più dolci e più desiderate le commozioni di una confidenza intera e tranquilla.

      — Sa?... non lo aspettava oggi, con questo tempaccio.

      — Quando son partito da casa, sembrava che il cielo si rischiarasse!

      — Davvero?

      E la Contessa lo guardò in modo, che l'altro dovette arrossire. Gli era sfuggita una goffaggine, e se ne accorse subito; ma, sempre, il primo momento ch'egli si trovava con Elisa, provava un impaccio, una soggezione, che non potea superare.

      — Iersera, ho ricevuto una lettera da mia figlia.

      — Buone nuove?

      — Sì, buonissime.

      — E laggiù come si trova?

      La contessina Cecilia, la chiamavan così per un riguardo alla mamma, aveva sposato l'avvocato D'Abalà, sotto-prefetto a Maremma.

      — Non troppo bene, anzi finchè a mio genero non daranno un'altra destinazione, fa conto di ritornare a star con me.

      A questa notizia l'Ariberti sorrise; ma a denti stretti.

      — Ci son dei saluti anche per lei.

      — Grazie mille, Contessa.

      L'Elisa, a questo punto, cercò nel cestino, ma invece della lettera di sua figlia, le corse fra mani un'altra lettera. Accortasi dello sbaglio, arrossì e, in fretta, se la cacciò nella tasca della veste.

      Eriprando, che aveva scorto sulla busta lo stemma del marchese Del Mantico, fece un muso così lungo tutto ad un tratto, in modo che la Contessa non potè non accorgersene.

      — Mi ha scritto anche il Del Mantico: e m'ha detto che,


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