Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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lei li era andata a cercare. D'altra parte era troppo buona per sentire dell'odio, dell'invidia, o solamente dell'amarezza, per alcuno: ella sopportava tutto in santa pace, ed era più che soddisfatta, felice, quando le domeniche d'estate andava in Campo Marzo, tutta chiusa nella sua mantelletta di seta nera, in compagnia della signora Luciana, una zitellona che teneva in affitto da molti anni le due disponibili delle quattro camerette, e le poteva dire, indicandole i più splendidi equipaggi che passavano al trotto: — quella signora là, è la marchesa tale, seconda cugina di Eriprando: — quell'altro signore è il conte così e così, terzo cugino di Eriprando: — adesso arriva il principe Caio, fratello d'un cognato d'una cugina di Eriprando — e con queste indicazioni la durava per tutto il passeggio, e la domenica vegnente ricominciava da capo, senza che mai ne dimenticasse un solo!... Quando poi rientrava in casa, dopo il corso di Campo Marzo, era tutta beata: le sue stanzette le sembravano più grandi, più lucente il cassettone, più morbido il canapè: e a cena, la sua polenta asciutta le parea dolce e saporita come un marzapane.

      Mamma Orsolina, anche quella notte continuava nel suo lavoro, e il conte Eriprando, secondo il solito, quantunque del bene gliene volesse, non si sentiva rattristare dallo spettacolo di quella vecchiarella che si affaticava per lui. Era un po' viziato l'amico: era stato avvezzo a esser servito: e poi, colla propria coscienza si accomodava facilmente, pensando che s'egli l'avesse anche sgridata, tanto e tanto quella buona donna non avrebbe voluto intender ragioni.

      Non le disse nulla dunque, ma invece si mise anch'egli a far qualche cosa. Prima di tutto si levò l'abito nero e tenendolo sollevato con una mano, coll'altra ne cavò, dalle tasche, il portasigari, un portafoglio di cuoio con una corona d'argento nel mezzo, dono della contessa Navaredo: un fazzolettino di battista che aveva pure una gran corona da conte ricamata in un angolo, capolavoro di mamma Orsolina, e un paio di guanti scuri, piegati a mezzo. Tutta questa roba la collocò in ordine, sul tavolino, e poi cominciò a ripulir l'abito ben bene.

      La contessa Elisa usava di nascondere colla cipria l'impertinenza dei capelli bianchi, che qua e là cominciavano a comparire nell'ampio volume della chioma bionda, e perciò, dopo i loro colloqui, il conte Eriprando rimaneva tutto bianco di farina di riso. Anche quella sera, mentre colla spazzola dissipava le amorose tracce, un profumo di cipria all'opoponax lo avvolse come in una nuvola, sollevandogli nella mente, nel cuore, nei sensi, dei ricordi, che lo facevano vagar lontano da quella povera stanzetta, fino al canapè dei cinque minuti.

      Quando l'abito fu spazzolato, il conte Eriprando lo posò delicatamente sul divano, piegandolo in quattro, colle fodere fuori. Quell'abito avea da sostenere una gran parte alle bagnature; figuratevi che, come si suol dire, era figlio unico di madre vedova!... Poi, venne la volta dei guanti; prese un piccolo calamaio d'osso, una penna, e, sedutosi, sempre in manica di camicia, vicino a una lucernetta, cominciò adagio adagio e con molta pazienza, a colorir coll'inchiostro dove la pelle era un po' consumata.

      Il conte e la contessa erano così occupati da una mezz'ora, quando dopo un “si può„ che ebbe risposta affermativa, s'aperse l'uscio che dava sulla scala, ed entrò nella stanza una figura nera, lunga, ossuta, tanto da non potersi indovinare, a prima vista, se fosse un prete o una donna. In mano aveva un bicchiere, pieno, per due terzi, di caffè.

      — A lei, contessa Orsolina; ho fatto il caffè fresco e gliene porto una mezza chicchera.

      La signora Luciana non aveva mancato mai, in tanti anni di fitto, di chiamare contessa l'Orsolina: anzi ci teneva di rimbalzo a tutta quella aristocrazia, perchè già i titoli, anche quando non cavano la fame, riempiono la bocca.

      Il conte Eriprando salutò la signora, senza scomporsi, con un inchino cordiale e dignitoso a un tempo, e continuò tranquillamente a tingere i guanti.

      — Ne vuoi due dita? — chiese mamma Orsolina rivolgendosi al figliuolo.

      — Grazie, mamma. Dammene una goccia in un bicchier d'acqua.

      L'Orsolina uscì, e rientrò subito con una ciotola di cristallo quasi piena d'acqua fresca; si avvicinò al suo ragazzo, e versò tanto caffè nella ciotola, finchè questi, che aveva levati gli occhi, fe' cenno col capo che bastava.

      Anche la signora Luciana, quando tutti ebbero terminato di bere il caffè, prese, senza dir nulla, un ferro dal fornello, e, da un altro lato della tavola, cominciò a stirare dei fazzoletti.

      — La signora Luciana non ha mai sonno!

      — Lo creda, signor conte, io dormo d'inverno anche per l'estate.

      — Hum! Chissà.... chissà che foco ci brucerà sotto a tutta questa insonnia!...

      — Oh! giusto!.... Che fuoco la vuole che ci bruci sotto, caro lei!....

      Luciana, ad onta dei quarant'anni sonati, anzi, forse appunto per questo, se la godeva un mezzo mondo quando il bel giovinotto le toccava certi tasti delicati.

      — Io non ne so nulla: però i miei sospetti cadrebbero sopra un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante, che vedo spesso girellare da queste parti con certe arie da conquistatore....

      — Mi fa la grazia di tacere? Mi fa la grazia di non inventarne sempre delle nuove, lei? Ieri era un avvocato, oggi è un capitano dei bersaglieri, stagionato ma ben portante!.... Quasi che non ci fossero altre donne per la casa, e più belle di me!....

      — Via, via, signora Luciana: lo sa anche lei, lo sa anche lei di essere amata: e ne gode, e si vede:

      “Quando nell'ombra de' suoi negri occhioni

      Improvvise balenano e procaci

      Le cupidigie che...„

      — Zitto là!.... non dica sciocchezze!.... e vada a dormire.... che domani.... Domani dev'essere una gran giornata per lei, ma... acqua in bocca! Acqua in bocca, chè se no, ce ne sarebbero degli altarini da scoprire!....

      — Sa, — continuò l'altro, che invece di essere spaventato, si sentiva lusingato da quelle minacce, — sa, signora Luciana, che sto già preparando de' versi per le sue nozze?

      “Dall'arida cenere

      Rinasce il mio core,

      Ritorna la cetera

      Ai canti d'amore.„

      — Grazie tante, ne faccio senza de' suoi versacci, tutti pieni di sporcizie....

      — Le tue carezze le conosco io solo, continuò l'altro facendo gli occhiacci.... — E il tuo guancial per me non ha segreti....

      — Le dico di smettere!....

      — Guai se potesse dir quel letticciuolo,

      Se potessero dir quelle pareti....

      — La vuol finire, sì o no? Prenda il suo lume, i suoi guanti, e vada a dormire subito, subito, subito!....

      Così dicendo, la signora Luciana, rossa come un peperone, con certe chiazze che non erano tutto pudore, si era buttata addosso al giovanotto, per farlo tacere, per ispingerlo fuori della stanza, e intanto si godeva a stringergli le mani e le braccia. Il conte Eriprando continuava a ridere e a recitare i versi dello Stecchetti, per irritare sempre di più la signora Luciana; ma poi, siccome era tardi, prese il lume, i guanti, che avea involtati in un giornale, e s'avviò davvero per andare a dormire. Mamma Orsolina rideva a quelle scene, senza capirne nulla, tutta allegra per l'allegrezza del suo figliuolo:

      — Aspetta, Prandino!... Vengo anch'io!...

      E lasciata la signora Luciana a brontolare e a finire la camicia che aveva già mezzo stirata lei, entrò col figlio nell'altra camera.

      Chiuse la finestra, rimboccò le coperte del letto; uscì e tornò con un bicchier d'acqua fresca che pose sul tavolino da notte, e poi, finalmente, se ne andò dalla camera, ma dopo aver salutato e guardato il suo figliuolo con una occhiata nella quale c'era dentro un bel bacione, ch'ella, intimidita, non osava dargli.

      Prandino aveva cominciato a svestirsi quietamente, colla cura di chi non vuole strapazzare la propria roba. Piegò il panciotto e i calzoni, e involtò la cravatta di raso nero


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