Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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Non lo poteva far da sè chè la sua pezzuola se l'era legata attorno al capo.

      Prandino arrossì.... prese una mano della Contessa, poi l'altra, e le asciugò tutte due adagio, lentamente.

      — Guardate qui, — fece lei quando l'altro ebbe finito, e gli mostrò la goccia d'acqua che le rigava la faccia, chinandosi e allungando verso di lui la sua testa incipriata.

      A Prandino batteva il cuore violentemente, gli ronzavan le orecchie e sudava tutto. Avrebbe voluto parlare, ma la voce gli si strozzava nella gola: avrebbe voluto asciugar quella gocciola con un bacio, avrebbe voluto stringersi l'Elisa al cuore, e lei, forse, non chiedeva di meglio, ma non ebbe il coraggio di farlo o di tentarlo.

      — Grazie, — diss'ella, quando il giovane, tremando l'ebbe toccata appena sulla guancia colla cocca del fazzoletto.

      — Se non sentiste qualche cosa per me, non mi terreste qui così.... così vicino a voi.

      — No; non sento nulla; non insistete; cominciate a seccarmi.

      La Contessa disse tutto ciò con un'asprezza nervosa che contrastava col buon umore e colla tenerezza di poco prima.

      Ritornarono a tacere: Prandino questa volta era anche un po' mortificato.

      — Siete in collera?... — disse lei alla fine ritornando buona. — Via, datemi la mano e facciamo la pace.

      L'altro le si avvicinò; le due mani si strinsero; ma anche dopo la stretta non si lasciarono.

      — Perchè volermi far dire una cosa che già avete capito da un pezzo?

      A queste parole dette con una lentezza piena di sentimento, chi lo crederebbe? Prandino invece di consolarsi fu preso da uno strano turbamento. Era una confessione che desiderava da tanti anni, che aspettava da tanti giorni, eppure detta là, in quel luogo, in quel modo, in quel momento, lo sorprese invece di commuoverlo, lo sgomentò invece di consolarlo. L'idea di quello che avrebbe dovuto rispondere, di quello che avrebbe dovuto fare lo impicciava. Tutto il suo sangue, così caldo, così bollente, s'era raffreddato in un attimo.

      — Ah! dunque è proprio vero, mio Dio? — e non trovò e non seppe dir altro.

      Elisa, ch'era vicinissima a lui, gli appoggiò la testa sul petto, poi gli si piegò addosso, stanca, quasi priva di forze, colle braccia abbandonate, chiudendo gli occhi, palpitando, traendo dal seno ricolmo lunghi e grossi sospiri.

      Egli si guardò attorno.... incerto, timoroso. Capiva che avrebbe dovuto essere ardito; ma non l'osava. Invece la baciò appena, leggermente, sui capelli, e le disse piano, con la voce strozzata:

      — Sarà sempre la stessa cosa, ve lo prometto.

      Elisa ebbe un nuovo fremito, lo strinse lei al cuore, con una stretta nervosa, convulsa: l'altro mantenne la data parola.

      Imbruniva; la pioggia ritornava a cader giù fitta fitta, e anche il capanno cominciava a gocciolare da tutte le parti.

      La contessa Elisa socchiuse gli occhi, come se si destasse allora, poi si rizzò e:

       — Grazie, — gli disse lentamente.

      — Addio.... Contessa!

      — Andate via?

      — Sì.

      — Perchè?... con questa pioggia?

      — È meglio, Contessa.... lasciatemi andar via.... altrimenti.... Credetelo, è meglio che me ne vada. Addio.

      La Contessa gli sorrise dolcemente, ma lo lasciò partire.

      L'Ariberti, quasi di corsa, penetrò nel salotto, prese il cappello, l'ombrello, poi ne uscì di nuovo e senza nemmeno salutare un'ultima volta l'Elisa, senza nemmeno guardare dalla sua parte, si dileguò nell'ombra della sera che, di mano in mano, si faceva sempre più densa e più profonda.

       Indice

      L'arcobaleno mantenne le sue promesse: dopo una giornataccia e tutta una notte scura e piovosa, ne uscì uno splendido mattino pieno di sole, d'aria e di colori.

      La contessa Elisa si destò che già la piccola cameretta era inondata di luce, e, sedotta dalla larga striscia di sole che rigando il coltrone di seta gialla damascato ne sollevava un via vai di pulviscoli dorati, folleggianti fra loro, come torme d'insetti che s'inseguano, volle alzarsi, volle scendere all'aperto, per respirare anch'essa in mezzo a quel giocondo e allegro sereno della campagna, che la chiamava a sè dalle finestre spalancate.

      Nulladimeno, non si potrebbe dire che appena balzata giù dal letto, uscisse subito dalla camera, oh! no, tutt'altro! Ella si vestì, si acconciò colla solita cura paziente e diligente. Si oscurò le sopracciglia, con due tocchi leggerissimi di pennello: lisciò, ammorbidì le guancie con una certa manteca, sulla quale poi fece correre varie volte il piumino della cipria. Specialmente attorno alle narici, che aveva un pochino enfiate, e dentro le occhiaie, furono minuziose quelle sue cure.

      Dopo si diè il rossetto alle labbra, e, quantunque volesse sembrare spettinata, tuttavia non le costò poco tempo nè poco lavoro, l'artistico disordine dei capelli. Sulla veste, indossò un lungo mantello a doppio bavero, che nascondeva, o almeno dissimulava abbastanza bene, la fatale e inesorabile pinguedine, e finalmente attorno alle tese del cappello, puntò un velo fitto fitto, color caffè, di sotto al quale il suo volto, così accomodato e mezzo nascosto, appariva soffuso di una freschezza incantevole.

      Tutto quell'abbigliamento diceva chiaro che la Contessa voleva uscire a passeggiar fuori della villetta, e difatti, appena scesa attraversò il giardino, passò il cancello e s'inoltrò in una stradicciola dritta, lunga, ombrosa, fiancheggiata da due rivi d'acqua limpida, sui cui margini verdeggianti ella si fermava qua e là per raccogliere stupide margherite e sentimentali “non ti scordar di me.„

      Quando fu al termine della stradetta, udì un'allegria confusa e varia di fringuelli, di cingallegre, di passeri e di merli, che cantavano tutt'insieme. Lì, a dritta, poco discosto, dopo un prato tutto verde e un campo di terra nuda sparsa di sanali, c'era il paretaio, dove l'Ariberti, ogni mattina, andava a uccellare per conto del suo compare.

      La contessa Elisa lo sapeva e per questo appunto girò a destra, sollevando un po' la veste colle due mani e tuffando arditamente, fra le erbe umide del prato, i suoi stivaletti di pelle lucida.

      Il casotto del paretaio era tutto coperto da rami di pino selvatico e da fronde rampicanti, disposte in modo da nascondere quel luogo d'insidie. Le reti appese in giro, pendevan giù, da lunghi filari d'alberi d'ogni specie. Il mandorlo intrecciava i suoi rami con un giovine carpine ed il pero col sicomoro. I poveri uccellini avevan là, davvero, una ricchezza funesta di seduzioni!... Ma dopo quelle seduzioni sulla fronda cara che rammenta il nido, sul tronco amico che ricorda il primo volo, sotto le foglie e tra gli stessi fremiti della brezza che accompagnò i primi gorgheggi del loro amore, trovavano l'agonia e la morte!... Poveri augelletti!... Oh! mille volte più fortunata l'allodola che rimane uccisa da un colpo improvviso e tonante come la folgore, lontana dalle native pianure, in mezzo alla deserta infinità dello spazio!...

      La contessa Elisa era giunta a pochi passi dal casotto e si godeva tutta tra quei gorgheggi, in mezzo a quella verzura folta, ricreata dall'aria fresca del mattino.

       — Conte Eriprando! — gridò dopo un poco che era là rimasta ferma a guardare, — conte Eriprando!... Si può venire avanti!?...

      A risponderle uscì dal casotto un contadinello che serviva il Conte facendogli da uccellatore. Questi, senza parlare, con una mano le fe' cenno di non muoversi dal posto: poi si chinò e, nascondendosi mezzo dentro e pur rimanendo mezzo fuori dall'usciolo, attento attento, fissava l'occhio su due tordi che si avvicinavano saltellando fra i rami del paretaio, finchè d'improvviso, essi volando di traverso, piombarono nelle reti, dove invano si dibattevano tra quei fili, che per le lor forze pareano di ferro, con degli scrolli matti, furiosi, disperati.

      L'uccellatore con un urlo d'allegrezza,


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