Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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un cacciatore di prim'ordine e nella presa ci metteva molto amor proprio, per cui non le badava affatto, e rimase invece tutto fisso, immobile, ad aspettare il momento buono di tentare il colpo.

      — Perchè siete in collera, Conte?

      I fringuelli, fatti due o tre voli capricciosi, adesso eran piombati fra le aiuole traditrici, e, senza alcun sospetto, poveri innocenti, beccavano il miglio sparso là intorno, per gli zimbelli.

      Bisognava tirare lo spauracchio ed eran subito presi....

      Prandino difatti, ne aveva già afferrata la corda e puntandosi fortemente co' piedi, stava per dare l'urto alla strappata, quando la Contessa, visto che non c'era altro scampo, appoggiò sulle mani di lui le sue manine grassocce, calde, vellutate, e piano piano gli susurrò all'orecchio:

      — Perchè sei in collera, adesso?....

      Prandino si lasciò sfuggire la corda.... si voltò....

      I fringuelli erano salvi.

      La buona Elisa gli aveva appoggiata sulla spalla la testa profumata. Egli la guardò con uno sguardo lungo, tenerissimo, colmo d'amore e di passione: Elisa aveva chiusi gli occhi e sorrideva a fior di labbro. Come la sera innanzi egli allora la baciò sui capelli; poi, d'improvviso, stringendosela al cuore con una stretta convulsa, la baciò e la ribaciò sulla bocca, cosa che la sera innanzi non aveva avuto il coraggio di fare.

      Intanto i due uccelletti eran rimasti liberi e padroni del campo. Volavano a capriccio, dalle aiuole fiorite alle frondi verdi della siepe; poi battendo l'ali tornavan giù a bere l'acqua e a diguazzarsi nel bagnatoio degli zimbelli.

       Nessuno al mondo pensava più di fare ad essi alcun male.

      Giacomo, appena li aveva notati, s'era levato lui, mezzo da sedere, aspettando che dal casotto venisse data la tirata. Ma nel casotto sembrava che tutti fossero morti o, per lo meno, addormentati. Allora il villano die' in una grande sghignazzata, si strinse nelle spalle e si buttò a svoltolarsi, come un puledro, fra l'erba umida della riva.

      Dei soffi d'aria leggeri correano sfiorando la terra, piegando le foglioline dell'erba, facendo stormire le fronde spesse delle siepi; lunghe ondate di profumo vagavano nell'aria, e qua e là qualche ranocchio che si godeva il sole sull'orlo del fossato univa di tratto in tratto, il suo gracidare monotono, ai canti acuti, squillanti, stonati che uscivano dall'uccelliera.

      Giacomo, supino, stette là lungamente a beversi in un assopimento stanco quella luce calda e snervante; ma poi quel grande barbaglio del sole lo accecò e allora stirandosi e sbadigliando, si tirò giù, sulla faccia rosolata, il cappellaccio nero, bisunto e sformato.

      I fringuelli continuavano intanto a godersi lietamente tutta quella pastura. Eran tornati a rivolare sulla siepe e dalla siepe al boschetto, e dal boschetto alle aiuole, e adesso salterellavano tutti e due sul tetto del casotto.

       S'inseguivano, si sfuggivano, poi ritornavano ad accoppiarsi per scappar via un'altra volta, ma sempre continuando a pigolare, con dei gorgheggi, ch'erano le note più dolci del loro linguaggio.

      Dal tetto, vispi, pettegoli, curiosi, scesero in cerca di becchime fra le fronde secche delle pareti, poi, temerari, vennero a posar proprio, bezzicandosi, sulla corda dello spauracchio ch'era là distesa, abbandonata e, dopo, tutti e due vicini vicini, pigolando sempre, s'inseguirono fino sull'assicella del finestrino: ma allora ci fu qualche cosa che li impaurì all'improvviso, perchè d'un tratto volarono via, spionciando spaventati e andarono dritti dritti, a cader giù perdendosi nei campi lontani.

       Indice

      Quello fu per il conte Eriprando degli Ariberti il più bel giorno della sua vita; e quando, verso le dieci, la Contessa lo licenziò con un ultimo sfogo di moine, egli era stanco, affranto, da quella sua grande felicità, e sentiva proprio il bisogno di esser solo, di andar lontano anche dalla donna ch'egli adorava, per raccogliersi a pensare, a misurare, a comprendere la nuova e immensa beatitudine che lo stordiva. Venne quasi l'alba prima ch'egli potesse addormentarsi. Tutta notte s'era voltato e rivoltato nel letto, col cuore gonfio, in preda a una contentezza, a una smania nervosa, che lo teneva desto, agitato.

      È proprio vero: la felicità dà le stesse inquietudini, le stesse angosce, quasi, del dolore, ed è anche proprio vero che, come bisogna abituarsi alle disgrazie per sopportarle, così bisogna anche abituarci alla felicità per saperla godere.

      Nemmeno la contessa Elisa dormì subito; non già ch'ella pure avesse inquietudini in cuore, ma perchè aspettò del tempo prima di andare a letto. Però la Beppa, ch'era una dormigliona rabbiosa e che, quand'erano sonate le dieci, tutta raggomitolata sopra una sedia, vicina al fuoco, in cucina, non faceva altro che brontolare fra un pisolo e l'altro, quella sera non ebbe occasione di lamentarsi. Elisa la mandò a dormire subito, dicendole che si sarebbe spogliata da sè, perchè prima aveva da scrivere delle lettere.

      Difatti, ne scrisse una, corta corta, alla contessina D'Abalà, e quest'altra che segue, piuttosto lunga, per il maggiore Del Mantico:

      “Caro marchese,

      “Oggi ho avuto una giornata molto splenetica, e vi confesserò, con tutto il candore, che ne è proprio stata causa la vostra lettera, dalla quale traspariva, fra le linee, una freddezza per me incomprensibile e anche choquante in qualche punto.

      “Perchè non venite?.... Gli affari di servizio.... Oh! sono molto comodi gli affari di servizio, quando mancano pretesti.

      “A quelque chose malheur est bon, e anche le grandi manovre servono bene per ischivare delle visite seccanti. Non è vero, caro marchese?....

      “Io, però, siccome non ho nessun regret nella mia coscienza, così vivo tranquilla, almeno per questo riguardo, e dimentico il presente, spaziando, come in un sogno, nelle rimembranze di un dolce e tenero trascorso.

       “Anche oggi ho avuto la visita del conte Eriprando degli Ariberti. Povero bébé! Egli mi ama davvero e vorrebbe farmi sua moglie. In ogni modo, senza interrogare il mio cuore, la realtà della vita vi si oppone. L'ho mandato via, adesso, per iscrivere a voi, e penso di chiamare mia figlia presso di me, perchè il mondo è così maligno, e le assiduità del Contino, essendo io qui tutta sola, potrebbero venire interpretate equivocamente.

      “Del resto, io lo vedo proprio con dispiacere soffrir tanto, povero giovane! ma non gli ho nascosto che rinchiudo tali ricordi nella mia anima, che mi darebbero sempre molto a pensare prima di legarmi a un altro. La poesia, che da lontano mi sfiora l'anima col suo dolce profumo, paralizza ogni palpito del cuor mio.

      “Però confortatevi, caro marchese; se io vivo del passato, ciò non vi deve punto allarmare. Ho dello spirito, me lo avete detto anche voi, e ne uso a beneficio degli amici, per ricordare delle loro promesse quelle soltanto che loro stessi rammentano senza pentimenti.

      “E ciò sia detto en passant, anche per la visita che volevate farmi qui in villa, e che le grandi manovre hanno rimandata, pare, ad un tempo indefinito.

      “E quella mia figlia che mi secca sempre perchè vuole ad ogni costo che io mi rimariti?!.... Da ciò solamente dovrei arguire che l'avvocato D'Abalà le rende molto felice l'esistenza.

      “L'Ariberti ha visto stamattina nel mio cestino la vostra lettera. Deve certo aver indovinato dalla busta ch'era vostra, perchè è diventato rosso come un gambero e poi è scappato subito via, tutto sconvolto, senza quasi nemmeno salutarmi.

      “Pensate a me e, se non altro, non siate oblioso di qualche souvenir che del tutto ancora non può riuscirvi ingrato. Credete che io conserverò sempre a riguardo vostro, dell'affezione leale e sincera, anche perchè il giorno nel quale cessasse questo mio vivo interessamento, quel giorno potrebbe cominciar la coscienza a farmi dei rimproveri e dei rimarchi ben severi.

      “Chi ama dimentica....

      “Chi cessa d'amare ricorda....


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