Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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dove c'erano i guanti. Fatto ciò, perdette ancora del tempo parecchio a lucidare la sua catena di similoro; una catena che credevano tutti, anche la contessa Navaredo, fosse d'oro massiccio. Levò quindi dal cassettone un cartoccio, nel quale stava involtato un portafogli unto e bisunto, il predecessore di quello che gli aveva regalato l'Elisa, e tornò a contare, operazione che da una settimana faceva regolarmente tutte le sere, il danaro che c'era dentro.

      Non c'era verso: erano dugento ottanta lire, non una di più, non una di meno!... Allora tornò, come tutte le altre volte, a rifare i suoi calcoli: tanto pel viaggio, tanto per la camera, tanto pel vitto, pei bagni, per le acque, pei traghetti... Ne aveva per dodici giorni, a far molto! Fossero state almeno trecento, avrebbe avuto un po' di largo!.... Alla fin fine viaggiava con signore, e colle signore si spende sempre di più... poi c'era quel monello di Gegio, il quale si metteva a piangere dalla sete e voleva bere tutte le volte che vedeva un caffè.... poi c'era suo cugino Badoero, sicuro, che lo avrebbe condotto in società e che indirettamente lo avrebbe fatto spendere anche lui.

      Bisogna sapere che su questo cugino Badoero il conte Eriprando ci faceva molto assegnamento per darsi arie a Venezia. Ne aveva discorso molte volte colla contessina Cecilia, e non parlava mai delle bagnature colla contessa Elisa, senza ch'egli non le promettesse di presentarglielo. Per dire la verità si conoscevano appena di nome, tanto da scambiarsi i biglietti di visita ogni capodanno e nulla di più. Ma, non importa, erano parenti lo stesso: e il Badoero, oltre di appartenere ad una gran famiglia, — figuratevi che fra maschi e femmine contavano in quella casa più di una dozzina di corni, corni ducali, s'intende, — oltre dunque di appartenere ad una gran famiglia era anche un riccone sfondolato. Ma pur troppo, per quanto il cugino Badoero fosse ricco, le ducento ottanta lire del conte Eriprando non ne volevano sapere di diventare trecento!...

      E queste sue pene, dopo d'essersi levati gli stivali prima di saltare nel letto, le confidò tutte con un'occhiata piena di passione ad una fotografia portrait-album, ch'egli teneva sul suo tavolino da notte appoggiata a un elegante cavalletto di legno intarsiato.

      In quel ritratto la contessa Elisa dimostrava una diecina d'anni di meno, ragione per cui tanto lei quanto il conte Eriprando lo trovavano somigliantissimo.

      Era stata presa di profilo come dicono i fotografi: in piedi, a mezza figura. Aveva i capelli sciolti che le scendevano giù per le spalle e, fra le mani, teneva un libro aperto, che non doveva essere un libro di devozione.

      Era appoggiata al davanzale d'una finestra, più che raccolta, assorta nella sua lettura: e la fotografia, con effetto di chiaro di luna, aggiungeva dei riflessi romantici a quel profilo delicatissimo di figuretta bionda e sentimentale.

      Adesso il tempo avea giocato dei tiri assassini alla Contessa. Il collo le si era un po' ingrossato, le guance cominciavano a diventar flosce, le palpebre, specialmente la mattina. Le avea rosse e gonfie: la pelle scuretta, la fronte un po' rugosa, e quando apriva la bocca si vedeva qualche segno di lutto fra i mascellari: già il suo riso non era più limpido, squillante, argentino e breve; s'era fatto troppo lungo e sgangherato, e la finezza della vita era sciupata da un tantino di pinguedine. Di tutte queste disgrazie il conte Eriprando non se ne accorgeva: per merito della cipria, del belletto, della glicerina, del cold-cream e della crème froide, ma sopratutto dell'amore, egli la vedeva sempre bionda, bianca, sottile, con alcun che di vaporoso, di etereo, di virginale nell'espressione, soavemente melanconica del volto ed in tutta la linea elegante della personcina; tal e quale com'era là in quel suo ritratto... ch'ella da dieci anni continuava a far riprodurre.

      Quella dolce contemplazione durò qualche tempo: poi, finalmente, si decise, spense il lume e saltò nel letto. Però anche al buio, la contessa Elisa, coi capelli sciolti, col libro in mano e tutti gli effetti del chiaro di luna appariva viva dinanzi agli occhi del nostro innamorato!... Com'era cara, com'era bella, com'era buona! — ed era sua!.... Quante felicità avrebbe godute con lei in quelle due settimane.... al Lido di giorno.... in gondola di sera..., e poi.... — Peccato ch'egli non avesse almeno trecento lire, e che non si potessero mandare al diavolo quell'uggiosa della contessina Cecilia e quello sbarazzino di Gegio!

       Indice

      Otto o nove anni addietro, quando il conte Eriprando d'adesso era appena Prandino, Elisa Navaredo, oltre al figurare come una donnina bella ed elegante, quale l'abbiamo veduta nel portrait-album, era per di più una dama elegante, che dava molto a parlare alla cronaca cittadina.

      A Prandino, quella bella signora, le chiacchiere, i desideri, gli scandali che la circondavano, fecero subito una grandissima impressione. Egli non parlava mai della Contessa, ma ci pensava sempre, giorno e notte; e tutti i suoi castelli in aria erano pieni di lei, della sua grazia, della sua bellezza e de' suoi fascini provocatori. — Oh! quando fosse diventato un grand'uomo!... — qual è il ragazzo che non sogna di diventare un grand'uomo?.... — quando fosse diventato un grand'uomo, allora le confesserebbe d'amarla... e l'Elisa non gli direbbe certo di no!....

      Tutto il suo avvenire egli lo vedeva in lei e per lei, e tanto s'infervorava col pensiero fisso nella contessa Navaredo che, alle volte, facea delle lunghe passeggiate, solo soletto, fantasticando attorno a quella donna, fingendo di averci insieme dei colloqui d'amore o delle scene di gelosia, e terminava sempre coll'essere lieto o triste per davvero, a seconda che la sua immaginazione lo figurava amato o deriso.

      Quando la incontrava, arrossiva tutto, sebben l'Elisa non lo guardasse neppure: tutte le domeniche, e le altre feste comandate, andava in Duomo, alla messa delle dieci, per vederla, per trovarsi dove era lei.

      Ma, prima di quelle messe, sciupava tutta la mattina lavandosi e fregandosi tanto da spellarsi per diventare più bianco.

      Rifaceva per una decina di volte almeno il fiocco della cravatta, perdeva un'altra mezz'oretta intorno alla scriminatura, e, proprio in mezzo alla fronte, s'impiastricciava un riccio alla rubacuori, che pareva un punto interrogativo.

      Dopo d'averla guardata di lontano, per tutto il tempo che durava la messa, usciva fuori in fretta dalla chiesa e s'imbrancava, fermandosi sulla porta, cogli altri adoratori del bel sesso, per farsi vedere, e un tantino per farsi anche ammirare da lei. La Contessa, figurarsi!, gli passava dinanzi dritta, lesta, senza nemmeno accorgersi di quel bamboccione impomatato per amor suo, mentre vedendosela così vicina, a Prandino invece gli tremavano le gambe, gli si scoloriva la faccia, e benchè davanti allo specchio avesse fatte molte prove, tuttavia là non gli riusciva mai bene di riverirla levandosi il cappello con un largo giro del braccio e in tre tempi, salutare, inchinarsi e stringere i tacchi. Per lo più, quando si decideva a scoprirsi, la contessa Navaredo era già passata.

      Però, soffriva spesso dei dispiaceri, delle gelosie, delle amarezze, che lo rendevano proprio infelicissimo. Bastava che, mentr'egli la pedinava di lontano, la vedesse accompagnarsi con qualcuno, perchè al povero Prandino gli si facesse nera l'esistenza, come il carbone. Allora s'imbestialiva, e nel suo furore a freddo, la copriva di vituperi, la chiamava leggera, civetta, e si figurava, quando sarebbe stato un grand'uomo, di farsi amare dalla regina per farle dispetto.

      Del conte Navaredo, il marito della contessa Elisa, Prandino non soffriva gelosia: invece, quando si trovava con lui, era preso da una gran soggezione.

      Un giorno, che lo incontrò, facendo una visita, si sentì confuso, impacciato, sconvolto, quasichè l'altro gli leggesse in fronte il segreto dei suoi desideri e della sua passione.

       Per fortuna di Prandino, il conte Navaredo morì presto di un accidente, e non si potrebbe ridire la gioia dalla quale fu invaso alla notizia di questo avvenimento il buon ragazzo, del resto così mansueto e delicato di cuore, da scappar via dalla cucina inorridito quelle rare volte che la contessa Orsolina poteva abbandonarsi al lusso di tirare il collo ad un magro volatile.

      Ma ben presto, appena finito il lutto grave, egli la scontò a caro prezzo quella sua gioia cattiva. Ogni giorno, a Vicenza, si dava in moglie la Contessa a qualche nuovo adoratore, e quelle chiacchiere tormentavano, perseguitavano il povero Prandino, che arrossiva e impallidiva tutto in una volta, con turbamenti strani


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