Sott'acqua: racconto. Gerolamo 1854-1910 Rovetta

Sott'acqua: racconto - Gerolamo 1854-1910 Rovetta


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l'aveva raggiunta, di lasciarglieli veder vivi nella rete.

      — Giacomo! lascia stare! — gridò il Conte all'uccellatore, che obbedì di mala voglia.

      L'Elisa e l'Ariberti, lo raggiunsero presto e si trovarono anche loro due dinanzi alle vittime spaurite.

      — Oh! come son carini, come sono bellini, poverini! — esclamò l'Elisa vezzeggiandoli con tutte le moine e i diminutivi coi quali si godeva darsi delle arie bambinesche.

       — Vuole che li serbi vivi per lei, Contessa?

      — Oh! no: tanto non camperebbero.

      Giacomo, appena udite queste parole non aspettò di più; e colle sue ditacce, schiacciò loro la testa, un dopo l'altro, con due colpi lesti, sicuri.

      Dibatterono l'ali un'ultima volta, ed erano già morti.

      L'Elisa diè in un grido acuto, mentre i suoi occhi si gonfiarono di lagrime.

      — Perchè hai fatto a quel modo, villano?

      E il Conte, irritato, aggiustò a Giacomo uno scapaccione così forte che gli mandò il cappellaccio a rotolare lontano.

      — Dio mio, poverini! che senso m'han fatto....

      L'Elisa, così dicendo, stringeva, chiudendoli, gli occhi, e si premeva le mani sul cuore che le palpitava.

      Tutti e due rimasero tristi e silenziosi. Il villano, sconcertato, si grattò la nuca, poi, dopo di essere corso a raccogliere il cappello, ritornò lì per accomodare, con due strappate di mano, le bisacce della rete.

      — .... Andiamo un po' all'ombra, nel casotto? — domandò Prandino alla Contessa, con la voce che gli tremava e il cuore che gli batteva forte.

      — Andiamo.

      E l'Elisa, di nuovo, sollevando un po' le sue vesti, fu la prima a muoversi nella direzione indicata, sempre triste, sempre silenziosa, saltellando leggermente per schivare le pozze fangose della viottolina.

      Il nostro giovanotto, dopo le conversazioni del giorno innanzi, si aspettava qualche cosa da parte della contessa Navaredo: o una lettera, o un libro con un fiore, oppure un invito a colazione.

      La contessa Elisa non usava chiamar gente a desinare, perchè i pranzi impegnano troppo, ma dava invece, di tanto in tanto, qualche colazioncina intima (erano sempre in due a tavola, compresa la padrona di casa) per la quale, più che la cameriera, la Beppa, che serviva da cuoca, lavorava il contadino che, essendo anche giardiniere, riempiva la mensa di fiori e di semprevivi.

      Ma sebbene qualche cosa si aspettasse, tuttavia quella visita della Contessa, a quell'ora, in quel luogo, superava qualunque speranza avesse osato vagheggiare.

      Erano i castelli in aria della sua adolescenza, fantasticati tutte le domeniche in Duomo, durante la messa delle dieci, che si avveravano coi loro più splendidi miraggi, divenuti realtà.

      Camminando adagio adagio, egli la guardava amorosamente muoversi lesta, elegante, dinanzi a lui; e allora il piedino perfetto e, più su, la gamba rotonda, coperta da una calza finissima di seta rossa, che le vesti, nel sollevarsi, scoprivano di più a ogni passo, a ogni saltello; e allora, il profumo della cipria aux fleurs de lys de kachemyr, che a sbuffate gli saliva al naso; e allora quegli alberi che si movevano ai lunghi soffi della brezza mattutina quel verde grondante di rugiada, quell'erba luccicante, quel sole così limpido, quell'aria fresca e sana, quella solitudine sicura, in mezzo a tutto quel vasto silenzio, solo interrotto dal canto alto degli uccelli, gli facevano battere il cuore con una contentezza infinita, gli facevano correre nel sangue nuove ebbrezze voluttuose.

      Quand'erano già vicini al casotto, s'accorse che Giacomo gli teneva dietro: Ariberti si voltò a dirgli:

      — Adesso non ho bisogno di te; va' pure a fare la tua merenda.

      — Grazie, signor Conte.

      Il villano gli fece dietro alle spalle una smorfia da scimmia, poi infilò un'altra viottola, passò dall'uccelliera a prendersi la sporta col suo desinare, e a un mezzo tiro di fucile all'incirca dalla ragnaia si sedette sopra l'erba folta della riva che divideva il campo vicino dal paretaio. Di tanto in tanto, fra un boccone e l'altro di polenta, il ragazzaccio però tornava a grattarsi la nuca e a fissare il casotto con certe mossacce maligne.

      Là dentro, in quella tana angusta, oscura, dove il sole penetrava appena con qualche striscia minuta, con qualche punto luccicante, dagli spiragli invisibili, sparsi in quel fitto congegno di fronde, di tronchi d'albero e di stuoie, Elisa e Ariberti, tutti due vicini, tutti due seduti sopra una panchina corta, ristretta, avevano già ricominciato a discorrere d'amore.

      — Che cosa avete pensato di me, iersera?

      — Che siete molto buono.

      — Troppo forse?

      — Oh! No!.... Vi voleva bene prima.... ma adesso ve ne voglio anche più.

      Prandino l'aiutò a levarsi il cappello che posò sopra un trespolo ch'era lì presso: poi tornò a sedersi sulla panchina con lei, che in quella oscurità non ci perdeva nulla, anche senza velo.

      — Perchè non dite te ne voglio anche più?

      — Perchè non son buona, perchè non mi piace. E poi, guardate, non ho mai dato del tu a nessuno.

      — Nemmeno a vostro marito?

      — Con mio marito si sa bene; ma era un'altra cosa!

      E l'Elisa si strinse un po' nelle spalle, infastidita da quella domanda molto ingenua di Prandino.

      — È curioso però il vostro modo di voler bene.

      — Sta a vedere, adesso, che l'amore consisterà nel dare del lei, del voi o del tu!

      — Non in questo solo, ma....

       — Ma in che cosa?

      — Voi siete cattiva anche.... anche in tutto il resto.

      Lei lo guardò fisso perchè non capiva, e lui la guardò fissa per farsi capire: ma poi, siccome l'altra continuava a non voler intendere, Ariberti, per ispiegarsi, col braccio le circondò la vita, e sporse le labbra, avvicinandosi per darle un bacio.

      Elisa si ritrasse con tanta vivacità che, quasi, cadeva giù dallo sgabello.

      — La prego, Conte, non mi faccia pentire della fiducia che ho avuta.

      — Perdoni, Contessa; perdoni! Già, io doveva saperlo ch'ella non sente nulla per me!

      E Prandino, secondo il solito, mettendo subito il muso, sciolse dal suo abbraccio la vita della Contessa, e cogli occhi fissi fuori dalla piccola finestrella del casotto, sembrò volesse rimanere da allora in poi tutto intento alla caccia.

      — Vedete come siete? Perchè non si vuol fare in tutto a modo vostro, fate il broncio e diventate sgarbato. Andate là, che anche voi avete un modo curioso di voler bene!....

      Quell'anche voi urtò i nervi a Prandino, che però non si mosse e continuò a spiare dalla finestretta.

      In quel punto due fringuelli spionciando allegramente e saltellando sui rami, tra le fronde della ragnaia, sembrava da un momento all'altro volessero scender giù nel mezzo del boschetto, attratti dagli inviti degli allettaioli.

      Ariberti, non appena li vide, fece subito svolazzar gli zimbelli; poi, sollecito, allungò le mani sulla corda dello spauracchio.

      Poveri uccelletti! Un colpo, una tirata sola e erano presi.

      Elisa li avea scorti molto prima che li vedesse il Conte; ma aveva taciuto, sperando gli passassero davanti senza che se ne accorgesse. Ella si era sentita stringere il cuore per essi; se li figurava già colla loro testina schiacciata fra le ditacce di Giacomo e, buona, sensibile com'era di cuore, volle salvarli. Pensò di chiedere a Prandino la grazia della loro vita, ma Prandino in quel punto aveva una faccia così feroce....

      — Perchè siete in collera, Conte? — gli chiese allora come per provare a distogliere l'attenzione


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