Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV. Fanfani Pietro
letizia delle donzelle fiorentine, ridotta una cosa tanto scura e tanto mesta.
— Maestro, se Dio vi ajuti, non mi abbandonate. Io vivo solo per la Bice: l'amo, dopo Dio, sopra ogni cosa umana; fate che io le parli: sono cinque interi anni che mi consumo di lei: cinque interi anni che nulla ne ho più saputo: l'ho creduta infedele; l'ho creduta sposa di un altro: l'ho creduta perfin morta. E ora l'ho riveduta sempre più bella, sempre più angelica, sempre amante... Maestro, ajutatemi, consigliatemi.
E qui non potè fare che allo scongiuro non tenesse dietro uno scoppio di pianto.
— Figliuolo — disse maestro Dino — che io vi procuri il modo di parlare alla Bice non è onesto nè a me nè a lei. Posso bene parlarne con M. Geri suo padre, ed esortarlo efficacissimamente che secondi gli onesti vostri desiderj.
— Suo padre! è inutile, maestro: fu avverso al nostro amore fin da principio.
— Io non so altra via che sia buona.
— Oh Dio, voi mi uccidete: io son diserto... da chi troverò consiglio?... Ah!... maestro Cecco! esclamò Guglielmo, a modo di chi si mostra lieto di aver trovato un sicuro ripiego.
Al nome di maestro Cecco, Dino si fece in volto come di bragia, e con atto di strana maraviglia dimandò:
— Maestro Cecco! Intendereste forse di Cecco d'Ascoli?
— Sì, rispose Guglielmo, esso è uomo di tanta sapienza, che...
— Di tanta sapienza? — interruppe Dino, — esso è un eretico scomunicato; è nimico del nome fiorentino; e i due più illustri figliuoli di questa patria ha scherniti e vituperati, dico Dante e Guido Cavalcanti, zio appunto del padre di quella Bice che voi amate. E voi ora vorreste che, siccome egli vituperò il zio, ora vituperasse il nipote, facendo da mezzano agli amori della sua figliuola...
— Maestro Dino, io sono leale cavaliere...
— I Fiorentini, messere, si chiamano ciechi, ma non sono: e i grandi di questa terra sono e leali e generosi e valenti in arme quanto cavaliere o francese o provenzale; nè loro si fa vergogna che non si paghi col sangue, o con lacrime amare.
— Maestro Dino! — riprese da capo Guglielmo — se voi non foste quell'uomo che siete, e se non aveste codesti capelli bianchi, non so s'io comporterei sì fatte parole.
— Nè io, così canuto, ho paura di voi e de' pari vostri. Maestro Cecco!... E il Duca stesso, che sapeva l'avversione di lui a Firenze, e come egli abbia cercato di offuscare le glorie maggiori nostre, chi sa che non lo abbia condotto qua seco per ischerno e per oltraggio di noi e della nostra terra. Ma, se questa è ora oppressa dalla sventura, e i suoi cittadini ora dormono, potrebbero un giorno destarsi, e far pagar caro a' superbi stranieri, ed ai truci tiranni lo scherno e l'oltraggio.
Tali parole diceva Dino tutto infiammato nel volto, e vinto assolutamente dall'ira. Tanto era l'odio che aveva per Cecco, che il solo nominarlo, ed il sentire che godeva fama di sapienza, gli aveva tolto il lume degli occhi; e chi sa fino a qual punto sarebbe arrivata la cieca furia di lui, se Guglielmo, tra per la riverenza in che lo teneva, per il rispetto alla sua canizie, e per non sentirsi tirato pe' capelli ad oltraggiare quel vecchio in sua casa, pensò bene di partirsene, dicendogli sole queste parole: «Maestro, io non sono troppo letterato; ma ricordomi bene di aver letto che un antico savio latino disse questa sentenza: Ira est initium insaniae.»
CAPITOLO VI. L'AJUTO DI CECCO.
Aveva Guglielmo fatto pochi passi fuori dell'uscio, che, sboccando da via del Garbo, dove erano le case dei Cavalcanti, nel Corso degli Adimari, si abbattè in Cecco d'Ascoli, a cui raccontò minutissimamente quel che gli era accaduto in casa maestro Dino; e fermandosi sul fatto della Bice, ed esortandolo a consigliarlo e ad ajutarlo, Cecco rispose, cercando di coprire il suo sdegno con una certa tinta di gravità.
— Messere, la ira e i vituperj di Dino contro di me non vi diano maraviglia: leggemmo insieme per molti anni nello studio di Bologna; e come egli si reputa il primo scienziato del mondo, e la mia scuola era più frequentata e più lodata che la sua, così ne prese fierissima invidia, e per me egli era sempre sparso di livore. Combattei gli errori di quel Dante Alighieri, di cui questi Fiorentini vanno tanto alteri, e massimamente questo maestro del Garbo, che, tra le altre cose, lo appella Divino. Scrissi contro alle false dottrine contenute in una certa canzone di altro loro poeta e filosofo, amico singolarissimo di questo Dante e di questo Dino; ed anche di ciò prese fiero sdegno, e riscrisse un commento a quella canzone, contrario tutto alla mia sentenza: cosa meschina e debole se altra ne fu... Ma tal sia di quel tristo vecchio. Voi, messere, mi chiedete ajuto e consiglio nel fatto vostro; e debito mio sarebbe invece il disajutarvi.
— Oimè, maestro, ch'è quello che mi dite?
— Dopo il vostro incontro con la Bice dinanzi alla duchessa, questa mi volle a sè, e la trovai accesa di tanto sdegno e di tant'ira, che quasi mi fece paura. Messere, mi parlò per forma che io vi intravidi la gelosía: mi sono io apposto?
Qui Guglielmo non rispose parola, e Cecco continuò:
— Ma sia l'una cosa o l'altra, poco rileva. Vero è che la duchessa vuole ad ogni modo sapere come sta la cosa di questo amor vostro; vuole che ad ogni modo si rompa; e vuole che io le dia ajuto e consiglio in questa opera, ricorrendo alla magía, se per altro modo non è possibile.
— E voi le avete promesso?
— Promesso formalmente no; ma negato nemmeno, chè mi sarebbe costato caro. Io per altro son ben lungi dal voler secondare le feroci voglie di lei; anzi vo' far ogni mia possa per ajutar voi. I Cavalcanti gli conosco da un pezzo; e troppo mi piace che voi amiate una fanciulla di quella casa. Eccomi qua tutto vostro: e il modo di contentarvi non è per avventura troppo difficile.
— Dolce mio maestro, voi mi rendete la vita.
— Io ho promesso di leggere la Sfera del Sacrobosco ad alcuni studiosi che mi udirono a Bologna: tra questi ci ha un frate Marco de' predicatori, tutto cosa mia, e familiare de' Cavalcanti. Egli forse... Lasciatene il pensiero a me.
Gli occhi di Guglielmo sfavillarono di speranza e di gioja; e il suo grato animo a Cecco lo significò baciandogli affettuosamente la mano. E come già erano presso al luogo dove Cecco per la prima volta andava a fare le sue letture, ripetute a Guglielmo parole di conforto, gli diede commiato promettendogli che quella sera medesima avrebbe potuto dirgli qualche cosa.
CAPITOLO VII. IL GIARDINO DI CASA CAVALCANTI.
La duchessa aveva di fatto chiamato a sè maestro Cecco, e questi avevale di fatto dovuto promettere che farebbe ogni opera per frastornare e per rompere tale amore di Guglielmo e di Bice; ma ora che da Guglielmo aveva udito il rifiuto fattogli da maestro Dino, e la fiera avversione che questi avea mostrato a sì fatta cosa; e come anche Geri Cavalcanti fosse contrario; vedendo di potere ad un colpo ferire il suo acerbo nemico, e Geri nipote di Guido Cavalcanti, statogli già avversissimo, mutò proposito, e si diede a secondare con ogni studio il desiderio di Guglielmo; nè prima ebbe finita la sua lettura che, avuto a sè frate Marco, ed accompagnatosi con esso, dopo ragionato di cose diverse:
— A proposito, Frate Marco, disse Cecco, voi potreste se vi piace, fare un'opera buona.
E frate Marco, domandatogli come; Cecco, fattosi da principio dell'amore di Guglielmo, gliene raccontò capo per capo ogni minimo che, e conchiuse così:
— Voi vedete che messer Guglielmo ha oneste intenzioni verso la Bice, e non potrete negare che i Cavalcanti dovrebbero tenersi assai da più, se potessero imparentarsi con sì nobile cavaliere come lui. Ambedue que' giovani ardono di rivedersi... la cosa è onesta, perchè conduce a buon fine... voi siete domestico di messer Geri...
— Maestro, che domandereste voi?