Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV. Fanfani Pietro
raccolti insieme, avevano per modo inebbriato i Fiorentini, che in mille guise significavano la loro letizia, e non restavano di applaudire. Come il duca fu giunto sulla piazza di San Giovanni, entrò nel tempio, splendidamente addobbato, dove era a riceverlo la chericía della cattedrale in abiti solenni. Fatta breve preghiera ed assai ricca offerta, uscì di chiesa per la porta di mezzo, e volle fermarsi un poco ad ammirare la nuova fabbrica di Santa Reparata[11], che già era molto innanzi: guardò con molta compiacenza la graziosa loggia del Guardamorto[12]; e parve fargli mirabile effetto il corso degli Adimari[13] con tutti quei palagj, e torri, e logge, adorne di festoni, di ghirlande e di bandiere.
Doveva egli risedere nel palagio del Podestà da Badía: e quivi la gente era accalcata su per le logge, per le scalee, sui tetti, per tutto; e non si può dire a parole il clamore di voci e il batter palma a palma che fu fatto quando il signore sboccò sulla piazza.
— Viva il duca e la duchessa.
— Viva la chiesa e parte guelfa.
— Muoja Castruccio e i ghibellini.
— Viva il re Roberto.
— Viva il popolo, vivano i ghibellini, gridò una voce.
E più di mille voci: No, viva il signore; e furono addosso al mal capitato gridator ghibellino, che ne andò mezzo pesto ed infranto.
In sulla porta di Badía stavano a mirar lo spettacolo un frate Minore ed un vecchio di alta statura, che all'abito si conosceva per medico; niuno dei due pareva compreso da quella gioja di cui il popolo dava tanti segni; e udendo tante grida, e vedendo il caso del povero ghibellino, disse il vecchio con sorriso di scherno:
— Come ben disse il nostro Dante che il volgo grida spesso: Viva la sua morte e muoja la sua vita! Avete sentito? Viva il signore! E questa città si regge a popolo! Viva il signore!... Si vede che questi sciagurati non lo sanno che cosa sono i signori: eppure son sempre aperte le piaghe che lasciò sulla povera Firenze Carlo Senzaterra. Oh! benedetto il mio Dante, che sì potentemente lo folgorò.
— Eh, maestro, pur troppo dite vero; e Dio voglia che questo signore qui, non faccia anche peggio di quell'altro a Firenze, tanto sinistro aspetto mi par ch'egli abbia!
In questo mezzo il duca e la duchessa erano già montati in palagio, e già i cavalieri si avviavano verso le case loro assegnate, quando il frate Minore:
— Oimè! maestro, guardate, se Dio vi ajuti, quel vecchietto tutto vestito di nero su quel cavallo leardo. E' mi par tutto Cecco d'Ascoli, processato già per eretico e per negromante a Bologna.
— Come! Il detrattore del nostro divino Dante, e di messer Guido Cavalcanti? Colui che presume di esser fisico, filosofo, astrologo, poeta, ogni cosa? Ed ha fronte tanto sicura che osi di venire a Firenze? Non è possibile, frate Accorso: guardate meglio, accertatevene; io sono di vista troppo inferma.
Ma intanto i cavalieri si erano già allontanati: e però i due personaggi, affine di accertarsene, la diedero per un chiassuolo, e riuscirono appunto alle case dei Macci là da Orsammichele, dove tutti dovevano far capo; nè prima si furono un poco appressati, che il frate riconobbe Cecco, e non potè tenersi che non dicesse ad alta voce:
— Ah pateríno dannato! è lui daverro: è il negromante! E il duca viene accompagnato da certa gente? Maestro, lo dicevo che di questo duca ne speravo poco bene?
— Ed anche mi pare che sia un oltraggio a Firenze il venirci accompagnato da un eretico, che ha, per di più, vituperato i due più illustri figliuoli di questa patria.
— Maestro — disse un popolano accostandosi — che dite voi di scomunicato e di negromante?
— Nol vedi — soggiunse il frate — quel vecchietto nero che smonta or da cavallo? È un eretico, è un negromante.
E intanto la gente faceva capannello accosto ai due che parlavano.
— Sarebbe da cacciargli a furore di popolo.
— È Cecco Diascolo — (il popolo chiamava così Cecco) ripigliò il maestro; — il beffeggiatore di Firenze e di Dante; non si vorrebbe comportare che la nostra città fosse contaminata da gente sì obbrobriosa.
— Cecco diascolo? muora, muora, — cominciarono tutti a gridare: e gli avrebbero messo le mani addosso, se Cecco, veduta la mala parata, non si fosse rifugiato tosto in casa, la quale era guardata dai provvigionati del duca di Atene.
Smontati che furono tutti, la gente cominciò a dileguarsi; ed a poco a poco la città aveva ripreso il suo aspetto grave, e la sua quiete. — Ma perchè si faceva tanta festa da un popolo libero alla venuta di un novello signore? E chi erano quel frate e quel maestro, i quali aizzavano il popolo a levar rumore contro Cecco d'Ascoli? Il lettore mi segua, e lo saprà in quest'altro capitolo.
CAPITOLO II. UN POCO DI STORIA. — CECCO D'ASCOLI, MAESTRO DINO DEL GARBO, E L'INQUISITORE.
La città di Firenze reggevasi a popolo, e godeva della sua libertà, dicono i vagheggiatori dei governi popolari, ricordando le cose fiorentine, specialmente del secolo XIV. Ma di che sapore era ella questa libertà, e quali erano i frutti che dava? Fino dal principio del secolo Firenze, come dice Dante, rinnovava genti e modi; e più che mai la straziavano le maledette parti de' Bianchi e de' Neri, trapiantatevi da Pistoja; e diventava un Marcello, per usare la mirabil frase di Dante medesimo, ogni villano che venía parteggiando. Tutta la gloria e tutto il desío di quegli sciagurati consisteva nel sopraffare, anzi nel disfare la parte contraria, ardendo case, dichiarando ribelli, e confiscando i beni dei vinti. Non si trattava più di Guelfi e di Ghibellini, perchè questi ultimi non si erano più rifatti dopo la rotta di Benevento e il crudele supplizio di Corradino, e solo i Guelfi signoreggiavano, come quegli che avevano il favore del papa e de' reali di Napoli, tenendo gli altri sotto gravi pesi, per modo che non ardivano di alzar la fronte; tanto più che i loro capi erano dichiarati ribelli. Ma i Guelfi stessi erano discordi tra loro, e si erano partiti, come diceva, in Bianchi e Neri, riscaldata l'una parte e l'altra dall'ambizione de' grandi e specialmente de' Cerchi e de' Donati; onde la città stessa era non di rado campo di battaglia; i palazzi si munivano e si assaltavano come fortezze; le vie si asserragliavano; esempj di crudeltà e di ferocia erano frequenti; un continuo mutar di leggi e di ufficj: e Firenze poteva bene agguagliarsi, come appunto l'agguagliò Dante, a un'inferma, che non trova riposo sopra un letto di piume, e fa schermo al dolore dando volta di continuo.
Quando le cose riducevansi agli estremi, che proprio non si poteva andar più avanti, allora si cercavano rimedj. Prima il papa mandò il cardinale di Acquasparta, che, giunto a Firenze, chiese balía di riformare la terra, di rappacificare le parti e accumunare gli uffizj: ma i Cerchi se ne risero, ed egli partì lasciando la città interdetta. Poi vi mandò Carlo di Valois, detto Senzaterra: fu gran disputa se dovesse riceversi; ricevuto, gli si diè balía di riformare la città con pace e senza disordine; ed egli, dopo averlo giurato, con la gente francese che aveva seco corse la terra per sua; e nacque uno dei più terribili tumulti che mai si udissero, per cui seguirono morti ed esilj, tra' quali quello di Dante.[14] Durissima prova di questa verità: che quando un popolo ha bisogno di ricorrere a protezione e ajuto di stranieri, questi gliela concedono solo per aver predominio e per avvantaggiarsene, a scapito della dignità e della libertà di chi li chiama o gli accetta: durissima prova, che Firenze fece tante e poi tante volte senza impararne mai nulla.
Dopo la partenza di Carlo Senzaterra si provò ad eleggere con piena balía un ufficiale forestiero col titolo di Bargello; e chiamato a ciò M. Fulcieri da Calvoli, uomo feroce e crudele, questi manomise spietatamente la vita e le facoltà dei più nobili cittadini, e disertò la città per modo che Dante, nel XIV del Purgatorio, là dove Guido del Duca profetizza a M. Ranieri da Calvoli, zio di questo Fulcieri, gli fa dire:
Io veggo tuo nipote, che diventa
Cacciator di quei lupi in sulla riva
Del fiero fiume, e tutti gli sgomenta.
Vende