Cecco d'Ascoli: racconto storico del secolo XIV. Fanfani Pietro
parli alla fanciulla, al cospetto della sua matrona. Voi, so che questa matrona ben conoscete...
— È mia devota...
— Sì, sì, vostra devota; ed appunto per ciò consigliatela a fare quest'opera pietosa e santa. Su, bel frate: e se altro non potete, fate che almeno la vostra devota si abbocchi essa col cavaliere, che da lei si lascierà in tutto e per tutto governare.
Il frate si lasciò vincere a questi e ad altri più calzanti argomenti di Cecco; e senza indugio andò a casa Cavalcanti. Vide la devota sua, la quale, sapendo tutte le smanie della Bice, aveva già studiato ogni via da consolarla, e non le parve vero che gli se ne porgesse ora occasione; il perchè si proferse quasi da sè di parlare con Guglielmo, e pregò il frate che a lui desse la posta per la mattina di poi nel chiostro nuovo di Santa Maria Novella. La cosa fu condotta con tanta cura, che, non solo la matrona parlò il giorno di poi col cavaliere, ma potè recare la Bice a riceverlo nel giardino la sera del giorno medesimo. Chi intende amore per prova può facilmente immaginare la smania che ebbero i due amanti nel rimanente di quella giornata; i momenti parevano loro secoli; ciascuno ripeteva mille volte a se stesso le parole che avrebbe detto all'altro; ogni opera loro era fatta sbadatamente; non trovavano luogo; non potevano attendere a nulla; chè su qualunque cosa fermassero il pensiero, sempre risdrucciolava nel beato momento che gli aspettava la sera: e quanto più questa si appressava tanto più frequenti battevano i loro cuori. La posta era data alle quattro ore di notte, e non si domanda se Guglielmo fu puntuale; la Bice, nello scendere in giardino con la matrona, tremava come una foglia, e sentivasi venir meno le forze, tanto era sopraffatta, un poco dalla gioja, un poco dal timore e dalla novità dell'uscir di casa a quell'ora.
Era una delle più quiete sere d'estate, e la luna era quasi in pieno, che ci si vedeva come di giorno; a Guglielmo era stata data la chiave di un usciolo segreto; e come le due donne sentirono che quell'uscio si apriva, si fecero in là, e si trovarono dinanzi a lui, il quale, riconosciuta tosto la sua Bice, bramosamente la corse ad abbracciare, e presole il capo tra le palme delle mani, e baciatole e ribaciatole i capelli e la fronte, che tutta bagnolle di lacrime dolcissime, non potè per qualche momento articolar parola. La Bice anch'essa piangeva lacrime di dolcissima gioja, e la piena dell'affetto rendea muta anche lei, che soavemente appoggiava il bel capo sul petto del suo cavaliere; e solo dopo qualche tempo riavutisi da quella tanta commozione, Guglielmo ruppe primo il silenzio:
— Bice mia, quanti sospiri! quanti pianti! e mi avevi dimenticato?
— Guglielmo, non dire: mai mai non ho fatto un pensiero che non fosse di te in questi lunghissimi quattro anni; non preghiera alla nostra Donna, se non per te... quasi dimentica del mio buon padre. Ed ogni giorno, ogni momento sperava udir tue novelle, e questa sola speranza mi teneva in vita. E mai più nulla... e dubitavo... e piangevo...
— Ed io ebbi novella come tu eri ita sposa ad un altro.
Qui la Bice diventò rossa come di fuoco, e con amaro sorriso, scioltasi da lui, esclamò:
— Povero mio cuore, come lo hai mal compreso!...
— Che vuoi? mia diletta: io non restava mai, o vicino o lontano, di pensare a te: in guerra, nelle ambascerie, alle corti dei grandi, tu sempre mi eri nel pensiero; nè vittoria, nè plausi mi piacevano senza di te, e lettere mandava ogni volta che se ne porgeva occasione; nè mai dopo il primo anno ebbi veruna risposta, se non la novella del tuo matrimonio!...
— Ma io sospettai spesso quel medesimo; e se volessi dirti lo strazio che provava il mio cuore, non troverei parole che potessero significarlo a mille miglia. Mio padre, che sai non può acconciarsi a vedermi amare un straniero, mio padre aveva appostato vedette per tutto; e così vegliava ogni mio atto ed ogni mia opera, che gli venne fatto di aver per le mani così i fogli che tu scrivevi a me, come quelli che io a te scriveva. E forse ti si mandò ad arte la novella del mio sposalizio. Questo si seppe pur ieri da quel frate, che fu alimento principale della gelosía di mio padre; e che non so come a un tratto si diede così efficacemente a secondare il nostro amore.
— Opera di maestro Cecco d'Ascoli, di cui frate Marco è discepolo.
— Oh Dio! Chi è questo maestro Cecco? Quello per avventura che il popolo nostro chiama Cecco Diascolo? Ah mio Guglielmo, perchè mescolare un negromante nelle cose nostre? Io ho paura.
— Negromante lo crede il volgo, perchè fa cose di gran prodigio; ma queste sono frutto del suo lungo studio, e della sua altissima scienza. Pon giù, Bice mia, ogni timore: pensiamo solo ad amarci: forse tuo padre rimetterà a poco per volta da quella sua troppa avversione; il cuore mi dice che saremo felici.
— Ah! e il mio cuore no...
— Che cosa sono codesti tristi presentimenti? Bice mia, non turbiamo con foschi pensieri la nostra presente gioja. Amiamoci; speriamo. Anche lassù non può dispiacere il nostro amore così grande, così puro: Dio stesso sarebbe crudele, se lasciasse che si turbi o si rompa.
— Guglielmo, tu bestemmi. Dio è buono, e vuole sempre il bene. Speriamo dunque, come tu dici, speriamo in lui: a lui ci raccomandiamo, e tutto avrà buon fine.
La Bice in questo momento prese un'aria più lieta, e tono più familiare; e non sarebbero più finite le domande che l'uno faceva all'altro delle più piccole cose dette, o fatte, o pensate da ciascuno in quei cinque anni; se la matrona non gli avesse interrotti, addimostrando il pericolo e la sconvenienza di più trattenersi insieme fuori di casa. E però, amorosamente preso e dato commiato, non senza promessa di spesso rivedersi, la Bice tornò in casa, e Guglielmo uscì per la medesima porticina ond'era entrato, rimanendo ambedue col cuore traboccante di consolazione e di gioja. Ma ritorniamo alle cose pubbliche.
CAPITOLO VIII. LA QUARTA CERCHIA E I CONTORNI DI FIRENZE.
La quarta cerchia di Firenze (che è quella atterrata ora per far la quinta), già incominciata nel 1284, ed interrotta più volte, era quasi compiuta nel tempo che qui si descrive; e il duca, messosi a pensar di proposito alla guerra contro Castruccio, volle andare a visitarne le parti principali, a fine di appostare i luoghi e i modi più opportuni alla difesa della città in caso di bisogno: il perchè ordinò a questo effetto una nobile cavalcata col proposito di stendersi anche a diporto per le ridenti colline che circondano Firenze. Vi furono col duca e con la duchessa tutti i più segnalati cavalieri e savj di guerra della sua corte; e maestro Cecco d'Ascoli ancora, che di rado mancava colà dove il duca comparisse in pubblico.
Usciti la mattina a terza dalla porta Guelfa, la più vicina al Palagio, e passato l'Arno da S. Niccolò, e ripassatolo poi dalla porta a Verzaja, ora detta di S. Frediano, fecero la intera cerchia; e tutti non si saziavano di ammirare quella stupenda muraglia tutta di pietra, così grossa e così vaga a vedersi, con quei merli guelfi; e più che altra cosa maravigliarono i signori stranieri le grandi moli che si vedevano alle porte, ciascuna delle quali aveva un gran torrione larghissimo, e alto più di sessanta braccia, simili a quello che tuttora è in essere alla porta S. Niccolò; ciascuno dei quali era abile a contenere armi ed armati, da poter ribattere qualunque assalto nemico.
In ciascuno di questi torrioni, dalla parte della campagna, erano quattro scudi di pietra, in uno dei quali lo stemma del comune di Firenze, nell'altro quello della parte guelfa, donata alla repubblica da papa Clemente IV, e questo è un drago verde in campo bianco, a cui poi aggiunsero un giglietto rosso sul capo dell'Aquila[18]; sugli altri due vi era scolpita l'arme del popolo, una croce rossa in campo bianco; e nell'ultimo lo stemma del re Roberto. Nè questi soli torrioni si vedevano nella cerchia; ma altre torri vi erano di tratto in tratto; forti e merlate, tra le quali era maravigliosa una tra porta a Pinti e porta alla Croce, che era detta la Torre del Massajo, celebrata anche da Giovanni Villani. Compiuta che fu dalla nobile cavalcata tutta quanta la cerchia; volle il Duca salire un poco sopra le colline dalla parte di Fiesole; ma fu supplicato di accettare prima una colazione fattagli preparare da messer lo gonfaloniere e dai signori alla Badía fiesolana, a che il duca benignamente assentì. Il convito fu degno di chi lo dava e di chi l'accettava; e tutti quei signori francesi rimasero ben edificati non meno della cortesia fiorentina