Mar sanguigno (Offerta al nostro buon vecchio Dio). Guido Milanesi

Mar sanguigno (Offerta al nostro buon vecchio Dio) - Guido Milanesi


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       III.

       IV.

       Indice

       It is an ancient Mariner....

      (Coleridge).

      Sono intorno a me otto uomini vecchissimi che il mare da lungo tempo ripudiò. Da tuguri pieni di bimbi e d'immagini sacre, da giacigli posti tra reti rotte e detriti di barca, questi che non più altro chiedono alla vita che pace e sole, sono stati scovati ad uno ad uno con la promessa di un po' di vino; e col loro passo che non ha più fretta hanno varcata la soglia di questa villa seguendo docilmente il domestico attraverso il giardino e venendo a sedersi in silenzio nella stanza mia.

      Le finestre son chiuse. Una pioggia orizzontale scroscia sui cristalli col selvaggio impeto delle pioggie di novembre, mentre le invisibili mani del vento scuotono, curvano e dilaniano le cime degli alberi, facendo sbalzar pazzamente la luce dell'interno lungo i toni di una scala cinerea. Così nell'ambiente a poco a poco s'aggrava un odore grasso e complesso sul quale pesce tabacco e catrame, aspri fattori primi, sormontano un odore più blando di chiesa troppo piena e quello indefinibile e più repulsivo della stoffa dei poveri, inumidita.

      Ecco dunque un ben strano consesso intorno a me. Sono carni risecchite e scolpite dal sole e dagli anni, crani che appena fissati rivelano il teschio, occhi rossi, socchiusi dall'aver visto troppe cose, mani deformi e tremolanti che si agitano impercettibilmente nel silenzio dell'attesa: tutta una rovina organica irrimediabile e pronta a sparire. Ma per contrasto le alte spalliere delle poltrone damascate in verde cupo danno ad ogni corpo uno sfondo solenne; ed allora ognuno di questi vecchi che i miei sguardi investigano, perde per me il suo aspetto misero e m'apparisce come in trionfo. Un capriccio travestì e deformò dei dogi; i più vecchi dogi d'una Venezia stracciona...; ma dogi sempre...: chè se dalla scolorita giubba di uno manca ogni bottone, se uno squarcio riaperto nella mal fatta ricucitura mostra il gramo ginocchio di un altro, se un terzo sporge un braccio anchilosato da una manica sfilacciata, e se un altro, due altri hanno i piedi nudi, tutti comandarono navi ed uomini e tutti dal Cònero al Gargano dominarono l'Adriatico rastrellando pesce, questi analfabeti scienziati del mare, i cui sguardi flosci ora convergono nel mio come raggiera al centro.

      Ci guardiamo e tacciamo. L'idea dei tanti anni qui dentro compressi mi opprime. Io quasi non oso sospingere il mio pensiero vivo tra tanti cadaveri di pensiero sepolti in questi crani; ed in me sopravviene come un'improvvisa fanciullezza sulla quale incombe di nuovo quel «rispetto dei grandi» che da bambini ci faceva così umili.

      Far parlare costoro, raccogliere le loro leggende mi sembra ad un tratto una cosa impossibile. E poi, sarò compreso?

      — Neanche per sogno! — mi dice nettamente un mio amico di qui che secondando il mio desiderio ha saputo scovare questi otto vecchi — ciò che resta dei più celebri marinai del paese — e si è offerto da interprete. — Bisogna lasciarli parlare come credono, partendo da un argomento qualsiasi e spingendoli a poco a poco dove si vuole. Vedrà che faremo presto. Diriga loro una domanda a caso... ma che susciti il loro interesse... Cerchi un po'...

      Oh, allora è presto fatto. Interessar dei vecchi? Chi molto ha speso, pensa spesso a ciò che gli resta: qui, il vissuto e il da vivere. Scaldarli un po'? Basta chieder loro, per esempio, chi sia il più giovane...

      Questa mia prima domanda, tradotta, suscita infatti un confuso coro di denegazioni discrete, accentuate da una mimica a scatti come di mal congiunte membra di legno: cercar di precisare la propria età li mette di buon umore, li ravviva comicamente: son risatine catarrose, titubanze, brevi scoppi di tosse...; ed anche colui che viene finalmente designato da tutti come il più giovane, sembra schermirsi da un fatto buffo che a torto gli venga attribuito: e ride scoprendo le caverne dei denti.

      Ride perchè ha settantadue anni. Si chiama Antò, detto Picchinsù: e il cognome è inutile. Dice di conoscermi perchè un figlio di sua figlia, ora morta, fu imbarcato con me sulla Varese e per i miei buoni uffici fu promosso sottonocchiere. Può darsi.

      Ma ce n'è un altro che ride di più; Isè (Giuseppe) detto «La Botta» (il rospo), rattrappito infatti da un troncone d'antenna che gli cadde addosso in una notte di tempesta. Qualche parola che io non comprendo s'intercala nell'espressione del suo riso.

      — Dice — mi spiega l'amico — che Antò è «nu frighì» (un ragazzo) perchè lui invece ne ha ottantasette...

      Ottantasette! Un breve calcolo mentale scolpisce nella mia mente la cifra 1826 e mi porta a riflettere su una circostanza naturale e che senza nesso logico, ora mi apparisce come assurda: e cioè che quando nacque questo Isè «la botta», l'Aquila Cörsa era sparita da appena cinque anni...

      Ma tutti gli avvenimenti della terra si fransero contro la prora della paranza di costui. Infatti alla domanda scherzosa se egli ricordi di aver sentito nella sua adolescenza nominare un certo Napoleone Bonaparte, l'uomo corruga le bianche sopracciglia, pensa, si sforza, ride... Se l'ha sentito nominare! Sicuro. Si ricorda benissimo di un tale che si chiamava Napoleò ma che aveva però un altro soprannome: non Bonaparte. Era padre di tre figlie... — come tradurre la rude parola sua? — uomaiole, le quali vagavano a sera per la pineta lungo la spiaggia, deviando dalla casa e dalla moglie i marinai ritornati dalla pesca...

      — Isè, questo non c'interessa — interrompe il mio amico. — Non vogliamo sapere questo, Isè.

      Ma il vecchio, preso ad un tratto dal suo ricordo risvegliato, non bada più a nulla, e testardo come bimbo continua:

      — ... tre figlie che tutti i marinai alternativamente prendevano e maltrattavano: e che poi — prosegue abbassando repentinamente la voce — si rividero sempre dentro «lu scïò»...

      — In che cosa? — chiedo stupito.

      — Zitto! — Mi sussurra l'amico illuminandosi tutto. — Il caso ci aiuta. Mi pare che ci siamo.

      Un silenzio: un silenzio intessuto dal sibilo dei respiri. Ma perchè tutti questi vecchi mi fissano, sorpresi alla loro volta?

      — Lu scïò! — mi si risponde in coro e con un tono confinante col rimprovero, così come merita la mia inverosimile ignoranza, non dissipata certo da una tale conferma.

      — Ma guarda questi giovani! — sembra mi dicano otto paia di occhi divenuti improvvisamente vividi nel fondo delle occhiaie — Hanno carta e penna davanti, interrogano, pare che sappiano tutto, e poi...

      — Parla tu, Isè — dicono varie voci, stridule, roche, bambinesche, sibilanti. Spiega tu a «lu patrò»[1] che è.

      Ma l'uomo esita, sputa... repentinamente illividito. Con un gesto quasi incosciente leva un braccio per indicarmi le finestre su cui l'acqua scroscia... I ricordi napoleonici svaniscono d'incanto avanti alla strana parola, al terrore, al gesto di questo povero rimasuglio di celebre marinaio.

      — Come? — insisto. — Vuol dire dunque tempesta questa tua parola?

      No: è evidente che l'idea della tempesta raccorcia l'altra, la vera, tanto è amaro il sorriso che l'accoglie.

      — Più, più... — brontola il vegliardo fissando i cristalli. — È cosa più temibile, più spaventosa...

      — E parla dunque! — gli dice l'amico. — Tu sei il più vecchio e tutti sanno che ne hai viste e fatte d'ogni colore. Ma che cos'hai? — gli chiede, vedendolo chinar la testa tra le mani.

      — Non si parla di queste cose, patrò; non se ne parla mai: e specialmente quando il tempo è cattivo: come oggi. Sono anni che non ne parlo più — risponde con fioca voce il vecchio. — Porta sfortuna.

      — Sta a vedere che il famoso Isè


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