Il mondo è rotondo. Alfredo Panzini

Il mondo è rotondo - Alfredo Panzini


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Egli aveva dunque visitato diverse scuole del nord, ed ora visitava le scuole del sud.

      Tanto nell'Italia del nord, come in quella del sud, Beatus Renatus aveva riportato notevoli soddisfazioni in grazia di un campanelluzzo che ancora gli rimaneva nella casa del pensiero, e funzionava ancora abbastanza bene in quanto avvertiva delle cose da dire e delle cose da non dire. Egli prima di parlare, rigettava con garbo la giacchetta e scopriva il bel gilè con la catena d'oro, ovvero spiegava lentamente il fazzoletto, o sfilava anche i guanti: dopo di che parlava con pacata oratoria che si potrebbe dire all'inglese.

      Tutte queste cose fecero un bellissimo effetto tanto nei paesi del nord, come in quelli del sud, benchè nei paesi del sud Beatus non possedesse più la catena d'oro, la quale gli era stata rubata in tram nei paesi del nord.

      *

      «Non ti dolere, o Beatus, dello sputo di quella grossa bestia. Siamo tutte bestie».

      Questo ammonimento gli parve uscire dallo sguardo di alcune capre, le quali non andavano [pg!6] a spasso come i maialetti, ma posavano sui ripiani di un monumento seicentesco, ed erano così barbate che parevano filosofiche, e guardavano Beatus Renatus con occhio così melanconico che in quella espressione non si conteneva alcun oltraggio.

      Dalle capre Beatus levò l'occhio in su, e vide una colonna annerita dal tempo, e su la colonna vide ritta una statuetta di bronzo con la cappa, il cappello alla spagnola e il pugno alteramente su l'elsa della spada. Era un pupo: forse un infante di Spagna: un don Filippo, un don Carlos.

      Si ricordò allora che in quel secolo la Spagna fu (oh miseria!) signora del mondo.

      Ora sui gradini seicenteschi posavan le capre.

      E l'Italia fu sempre sotto la servitù dei signori del mondo.

      Beatus, anche lui, non se ne ricordava più. Gli uomini non possono ricordare tutte le cose passate: ma forse se ne ricorda la Storia, che è come una divinità, la quale in quei giorni lavava con tanto sangue quella colpa, perchè ogni servitù contiene una colpa.

      Mostruosa divinità la Storia!

      [pg!7]

      *

      Sopravvenne il capraio, al quale Beatus chiese un po' di latte. Una donna che portava in piazza la frutta mattutina, offrì un bicchiere. La mano del capraio era scura, scura era la mammella della capra, e da quelle due cose scure zampillò lo spumante latte.

      Beatus bevve.

      La donna aveva albicocche rugiadose e grandi, e Beatus ne comperò e ne mangiò, e da quella bevanda e da quel cibo vitale nacque una specie di ebbrezza. E riguardava quel pupo che da tre secoli sta lassù e nessuno sa più chi sia.

      Certo quel pupo fu un re, cioè uno di quegli uomini dalla voce tonante, anche se non avevano voce, che governavano il mondo in nome di Dio, anche se non lo governavano.

      Quale mostruosa finzione!

      Eppure allora era meno facile che un mascalzone sputasse sopra una persona vestita da gentiluomo.

      Ecco altre cose che oggi non si ricordano più!

      [pg!8]

      *

      Con questo ragionamento nella testa, Beatus era entrato senza avvedersene nel giardino della città — che lì chiamano villa — deserto in quell'ora, e pieno soltanto di ombre e di fiori.

      Dal giardino si vedeva, in lontananza, a metà della costa di un monte verde, un monastero come un castello ariostesco su cui batteva il sole nascente.

      Un gran silenzio! Ma Beatus Renatus si fermò e lisciando con la mano i baffi biondicci, non ineleganti, pareva stare in ascolto. Sentiva quello che non si sentiva: i cannoni folli che da quattro anni urlavano per abbattere l'ultimo pupo folle con Dio e la corona: l'imperatore Guglielmo di Germania.

      «Io ricordo, ma anche ricordando — disse — non capisco.»

      E riguardò ancora il monastero dove vivono coloro che non ne capiscono niente. E buttano via il loro nome!

      [pg!9]

       Indice

      E vide venirgli incontro pel viale deserto una figurina bianca che avea barbagli d'oro per effetto del sole che punteggiava la grande ombra.

      Quando gli fu da presso, la riconobbe: era la giovane professoressa di italiano.

      Due occhi vellutati, un corpo un pochino sfiorito pure essendo ella nel mezzo della sua giovinezza. «Una onesta giovane — avevano detto a Beatus Renatus le autorità del luogo, — e non priva di buon volere. Forse un po' vistosa. Porta grandi cappelli, tacchi un po' alti ed è profumata. E quei ragazzoni di scolari guardano più lei che i libri».

      La graziosa professoressa, quando fu presso di lui, fermò il saltellante passo e chiedendo scusa dell'ora e del luogo, con trepida voce cominciò così:

      — Signor Regio Ispettore, io vengo per una [pg!10] preghiera, e lei deve essere un'anima gentile.... — Ma non potè proseguire, perchè Beatus disse:

      — Ma chi glielo ha detto che io sono un'anima gentile? Chi l'autorizza a chiamarmi così?

      La giovane donna rimase esterrefatta.

      — Sappia, lei, che io sono terribile.

      — Ma, signore — disse la donna, — si vede che lei è un'anima gentile.

      — Si vede? Crede forse di farmi un complimento? Oh, sarebbe allora una cosa grave se si vedesse!

      E Beatus guardò la sua persona, come se invece che adorno di un bel gilè bianco, fosse stato immondo della lordura del grosso cialtrone.

      — Io volevo anche dir questo, signore — riprese la giovane donna — che la gentilezza italica mi dava speranza....

      — Ta, ta, ta! — interruppe Beatus sorridendo, giacchè non si parlava più della sua gentilezza, ma della gentilezza italica. — Sa lei quale è il vero nome della gentilezza italica? Debolezza italica! Ma lei ieri era presente quando io ho parlato alle autorità cittadine [pg!11] raccolte in congresso: «Niente suppliche, niente concessioni, niente condiscendenze, niente raccomandazioni». Mi pare che fossimo d'accordo.

      — Sì, signore. Ma dopo si torna a fare come prima.

      — Oh!

      — Non è per mancanza di buona volontà, signore. È l'aria di questo paese.

      — La risposta è intelligente! — disse Beatus dopo alcuna lunga meditazione. — Ebbene, mi esponga ciò che lei desidera.

      Ella cominciò a parlare.

      Le parole di lei erano incerte, ma gli occhi luminosi aiutavano le parole timidette.

      Ella aveva tanto letto, tanto studiato; poi la laurea, il magistero....

      — Benissimo, signorina — diceva Beatus, ma voleva sottintendere: «benissimo con limitazione».

      La graziosa professoressa, pur ragionando, camminava presso di lui lungo il viale. Portava una camicetta lieve e al moto del passo si accompagnava il fremito di quelle due cosine gelatinose, che stanno davanti alle donne.

      Non erano gran cosa, ma si potevano scusare [pg!12] quei ragazzoni di scolari se stavano più attenti a lei che ai libri.

      Anche il suono della voce era dilettevole tanto che Beatus fu sorpreso di dover osservare che pur l'accento napoletano è grazioso.

      Ma evidentemente egli stava più attento alla musica delle parole che al loro senso. Però quando la signorina concluse e disse: — Del resto io non domando che la mia felicità — rimase stupito, e guardò colei che domandava con tanta naturalezza la propria felicità.

      —


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