Il Re prega. Ferdinando Petruccelli della Gattina

Il Re prega - Ferdinando Petruccelli della Gattina


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di un anno, e voi sarete patta. Voi vedete! gli è per un mille crazie! per un tozzo!

      —Ma! gli è precisamente codesto tozzo che mi manca.

      —Tanto peggio per voi allora. Io non posso ribatterne un carlino. La piccola Passaro pretende anch'essa cinquecento ducati per le sue spille, adesso, l'orrida cammella! Fosse bella almeno!

      —E voi non pensate a farla saltare, eh?

      —Perdio! Se ci penso! Ma con un'altra sarebbe la stessa minestra. A meno che io non metta a quel posto una guidoncella di mia conoscenza che per riconoscenza non mi ricatti.

      —L'è giusto.

      —Ma quel porco grossolano monaco….

      —Qual monaco?

      —Monsignor Cocle, perdio! che vede pertanto delle belle dame alla corte e passa al bucato la coscienza del re e della regina…. sissignore! egli si è impaniato in quella moresca butterata…

      —Che specie di femmina è dunque codesta piccola Passaro? domandò Don Diego, intrigato perchè colui parlasse di codesto, e così liberamente, con lui, cui punto non conosceva.

      —Ma l'è di lei che io parlo. Figuratevi un botticello, cremisino, a grosse labbra di mora, senza vita e senza spirito, con un subbisso di ciccia che sbocca ed inonda dovunque, che s'ubbriaca con Monsignore, che mangia quanto lui, vale a dire come quattro uscieri; un compagnone d'indigestione in gonnella!

      —E nient'altro che questo?

      —Ma! vi debbe essere altresì qualche altra cosa…. ma poco.

      —Ebbene, bisognerebbe presentare a monsignore un partner dei suoi piaceri di un altro stampo.

      —Ah! se avessi una sgualdrinella parigina sotto la mano! Lo farei marciare il vecchio maiale, veh! Ma non parliamo più di ciò! Quanto a voi, ve lo ripeto, sono impotente. Pas d'argent, pas de saucisses! soggiunse egli ridendo.

      —Lo so. Una chiave d'oro, è la sola chiave che apre tutte le porte qui.

      —La sola, no. Una bella donna, un segreto di Stato, un servizio reso alla polizia, l'abilità a manipolare un miracolo… che so ancora? No, vi sono altre risorse nel nostro bel paese, grazie a Dio. Laonde non bisogna disperare. Cercate, sappiate cercare, e troverete.

      —In un parola, bisogna essere vile ed infame, osservò Don Diego.

      —Ah! sclamò Don Domenico come allocchito, se voi apprendete la lingua nei cattivi dizionari, se voi avete dei principj, aprite una finestra e gettatevi nella corte…. Questo mondo non è per i gaglioffi, soggiunse Don Domenico, con umore, alzandosi.

      —Scusate, signore, disse Don Diego, accorgendosi d'aver offeso l'impiegato che da una mezz'ora gli parlava a cuore aperto. Perdono, davvero. Non è dei principj che io proclamo qui; è la mia inesperienza di linguaggio che mi fa chiamar oca un papagallo. Arrivo di provincia. Ma mi formerò….

      —Oh sì, mio caro, formatevi e poi venite a vedermi. In questo mondo non si vive mica solamente di vescovadi. Voi potete fare altra cosa.

      —Ah! se io non avessi a lottare contro la polizia….

      —Corbellerie! La polizia non esiste. Voi non avete a lottare che

       contro la miseria. Abbiate dei quattrini, e vi si darà il Padre

       Eterno. D'altronde, voi sarete ricco quando non avrete più pregiudizi.

       Voi avete una mina….

      —Sì, rispose Don Diego sorridendo: la mine d'un homme condamné au suicide.

      Don Domenico alzò le spalle come un uomo che si dice: Non ci è nulla da cavare da questo idiota! Ed aprì la porta del suo gabinetto.

      Don Diego uscì. Era già nella corte, quando il domestico corse dietro a lui e lo pregò di risalire.

      Il suo padrone aveva un'ultima parola a dirgli. Don Diego risalì. Don Domenico l'attendeva sulla soglia della porta del suo gabinetto ove era restato a riflettere.

      —Udite, diss'egli, un ultimo consiglio. Mio fratello mi ha pregato d'interessarmi del caso vostro….

      —Grazie, signore, rispose Don Diego con dignità.

      —Mandate vostra sorella a confessione…. Voi dite ch'ella è bella…

      —Signore, interruppe Don Diego, mia sorella è straniera ai miei affari, ed io non vedo perchè….

      —Infatti! replicò l'impiegato con disprezzo. Ritornate dunque al vostro villaggio ed andate a zapparvi la terra. Io non so perchè siate venuto a Napoli. Io aveva creduto veder lampeggiare sul vostro sembiante altra cosa. Ma, e' pare che la natura si piace talvolta dare al tacchino la forma dell'avoltoio. Addio, signore.

      —Scusatemi ancora una volta, signore, riprese Don Diego. Datemi ad ogni modo il vostro consiglio. Voi siete buono in sostanza. Fate come l'agricoltore che getta la sua semenza e non guarda se qualche granello cade sulla pietra.

      —Non si semina sul tufo, in generale, replicò Don Domenico con impazienza. Ad ogni evento, ecco ciò che avevo a consigliarvi. Mandate vostra sorella a confessione dal P. Piombini della Compagnia di Gesù ed aspettate. Addio.

      E dicendo ciò. Don Domenico volse le spalle al provinciale e rientrò nel salone dove i suoi amici l'attendevano per giuocare una partita di mediatore—una specie di whist bastardo che si giuoca nel napolitano.

      Don Diego andò a passeggiare alla sponda del mare, la testa piena di pensieri, il cuore pieno di dubbi. Quella conversazione cinica apriva innanzi ai suoi occhi un nuovo orizzonte. Rientrò tardi, molto distratto e silenzioso. Egli meditava le proposizioni,—cabalistiche allora per lui,—seimila ducati per esser vescovo! un secreto di Stato! un servizio alla polizia! un confessore per sua sorella! una mina!… Ei levò la testa e scorse in faccia a lui Bambina che lavorava. Ei la contemplò lungamente. La vedeva forse per la prima volta. Poi si alzò di balzo e prese la volta della sua camera senza schiudere le labbra.

      —Non mi abbracci dunque questa sera? disse Bambina. Cosa hai dunque?

       Non mi racconti la tua visita?

      —No, rispose Don Diego. Non ti racconto nulla. Questa città è un inferno popolato di vigliacchi e d'infami.

      Ed uscì. Bambina sclamò sorridendo:

      —Mio caro Seneca, io vorrei che il tuo inferno fosse almeno un poco più caldo, perocchè ti confesso che io agghiado, e ti prevengo che domani bisogna comperar dei carboni.

      L'indomani, questa povera famiglia fu risvegliata alle sette del mattino da un birro che veniva ad ordinare a Don Diego di presentarsi di nuovo al commissario di polizia, a mezzodì. E gli estorse due carlini per essersi… scomodato!

      —Che mi vogliono ancora? mormorò Don Diego. Non mi sbarazzerò dunque giammai di codesta orrida ribaldaglia.

      All'ora indicata, nondimanco, si trovò alla presenza di Campobasso, il quale lo ricevè con un piglio più brutale che mai. Egli intimò alla sua vittima di avere a lasciar Napoli fra quindici giorni, per ordine del prefetto di polizia. Fu un colpo di fulmine per quel disgraziato che aveva appena speso quasi intero il minimo peculio per installarsi su quell'angolo di terra da cui ora lo si espelleva senza pietà e senza pretesto. Se avesse saputo ove andare almeno! se almeno fosse stato solo!

      Le lagrime gli rotolavano per gli occhi. Divenne orribilmente pallido.

       Barcollò. L'atroce commissario si sentì quasi intenerito.

      —Gli è per ordine del ministro, disse egli. Non ci è a recedere.

      —Ma che ho dunque fatto? domandò Don Diego con una voce soffocata, che ho dunque fatto che mi si tratta peggio dei forzati?

      —Ciò che i forzati non fanno, rispose il commissario. Voi vi mischiate degli affari del vostro paese, della sua morale, del suo governo,


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