Il Re prega. Ferdinando Petruccelli della Gattina
siamo poveri, figliuola, e tocchi dalla disgrazia. Non abbiamo dunque amici. Gli uomini sono come i cani: abbaiano ai mendichi e si gettano addosso ai più deboli. Si divora il ferito, come tra le bestie feroci. Non hai tu osservato come Don Tiberio si è mostrato glaciale verso di noi?
Don Diego non aveva visto sua sorella arrossire ed il barone di Sanza impallidire, al loro primo incontro, all'arrivo. Bambina si guardò di comunicare quest'osservazione a suo fratello e replicò:
—È vero. Ma noi siamo dei provinciali, e lui… un elegante della città, che frequenta di già ambasciatori e ministri.
Il barone di Sanza, in fatti, venne a vedere i suoi amici di Lauria due o tre volte, suggerì qualche consiglio molto utile; ma si addimostrò in generale freddo e riservato, come un uomo che non vuole svegliare speranze, cui non potrebbe poi realizzare. Non dimandò neppure a Don Diego ciò che voleva fare. Don Diego, del rimanente, sarebbe stato forse imbarazzato egli stesso a rispondere a questa dimanda. E' non sapeva che una cosa, come diceva a sua sorella, che egli era un cacciatore esausto, per il quale ogni selvaggiume era buono.
Don Diego ebbe della pena ad orientarsi nella città. Napoli è vecchia. Le sue strade, i suoi edifizi datano da molti secoli, appropriati alle esigenze di quei secoli ed oggimai un incomodo anacronismo. Strade anguste, vicoli sporchi, oscuri, poco o punto lastricati, ingombri di depositi d'immondizie, in cui sguazzano cani, maiali e monelli. Casamenti altissimi, male intonacati, male aerati, affollatissimi di abitanti malpropri, edifizi tortuosi, sovente guerci. Chiese e conventi che occupano ed attristano due quinti della città, o dei palazzi immensi e solitari che tengono tutta una strada. La vecchia Napoli è infetta, malsana, male abitata, piena di sgorbi, storpia in tutte le membra, senza logica. Un fetore orrendo, cui gli abitanti non percepiscono più, l'avviluppa. Don Diego perdeva la sua strada ad ogni passo o faceva dei lunghi giri. La città gli spiacque. E' sentì, dai primi giorni, la nostalgia dell'aer puro, delle foglie verdi, del cielo e dello spazio. La gente, nondimanco, gli parve buona. Egli non fu in contatto da principio che col popolo, il quale a Napoli è caritatevole, sente e si affeziona. È un cane: ha bisogno di amare qualcuno, o qualcosa, obbedire, consacrarsi; abbaierà talvolta per non importa chi e non importa che, ma non morde giammai. La libertà di già lo corrompe. Il borghese poi è altra cosa; del pessimo, pessimo. Ma Don Diego nol conobbe che più tardi.
Aveva appena terminato d'installarsi che, un mattino, un ispettore di polizia gli si presentò in casa. Quell'uomo ruppe quasi il campanello suonando. Entrò, cappello in testa, senza salutare. Si assise senza scovrirsi il capo, senza esservi invitato lasciando Don Diego in piedi. Squadrò insolentemente Bambina. Incrociò le gambe, rimuginò dello sguardo in ogni angolo e dimandò infine, parlando alto ed in tuono corrucciato:
—Sei tu Don Diego Spani?
—Si, signore, rispose Don Diego alquanto stupefatto dei modi del messere.
—Di Lauria?
—Di Lauria.
—Arrivato a Napoli da alcuni giorni?
—Sì, signore. Ma…
—Giù ai ma! cos'è codesto ma?
—Infine, signore, a chi ho l'onore di parlare?
—Sono io che ti parlo, replicò il poliziotto. Io sono l'ispettore di polizia del quartiere.
Don Diego salutò il destino.
—E vengo ad ordinarti, continuò l'ispettore, di presentarti dal commissario signor Campobasso.
—Non mancherò, signore.
—Eh! vorrei ben vedere che tu mancassi. Hai tu ben compreso?
—A mezzodì, signore, replicò Don Diego con molta dignità.
—Quanto paghi tu qui?
—Non caro, signore.
—Lo credo bene. Chi diavolo ha scoperto questo canile?
—Ciascuno si alloggia come può.
—Tu parli come un almanacco. E quel piccolo gioiello lì è tua figlia?
—È mia sorella, signore, rispose Don Diego, facendo segno a Bambina di ritirarsi.
Bambina salutò ed uscì. L'ispettore la seguì degli occhi, poi si alzò.
—E dire che ciò viene di Calabria! sclamò desso. A mezzodì dunque.
Poi dando un ultimo colpo d'occhio alla casa ed all'uomo, partì come era entrato, senza cavare il cappello, senza salutare. Alla porta però si fermò, mise la mano in tasca, ne cavò fuori una piastra e disse a Don Diego che l'aveva pulitamente accompagnato.
—Potete voi darmi della piccola moneta di questo, per pagare il cocchiere?
Don Diego tirò innocentemente di tasca un pugno di piccola moneta in argento e rame, e la presentò all'ispettore onde prendesse il valore della sua piastra. Il poliziotto intascò la moneta di Don Diego e la sua, non disse neppur grazia, chiuse la porta con fracasso e discese le scale borbottando.
Don Diego restò come allampanato e, testa giù e passo lento, ritornò in sala.
A mezzodì meno un quarto, ei saliva la scala del commissariato del quartiere Pendino, al primo piano di una casa sudicia e scura, al fondo di un angiporto. Nella corte gironzavano alcuni di quei birri ostensibili che lo straniero incontrava nelle strade di Toledo e di Chiaja, bardati di uniforme, un coltellaccio ai fianchi. Gli sbirri reali, i veri, i più numerosi, coloro che menavano la bisogna nei quartieri cui lo straniero non visitava giammai, gli sbirri pel popolo infine, formavano quella categoria a parte chiamata i feroci. Essi vestivano un largo calzone di velluto in cotone grigio, largo, una giacchetta ed un corpetto di velluto di cotone nero, stretto alla vita da una fascia di seta rossa, un berretto di pelle di coniglio o di lontra. Questi manigoldi, che si sarebbero detti da Opera Comica, coi loro baffi neri, e le facce bestiali ed atroci, violenti, grossolani, crudeli, ai quali la vigliaccheria delle vittime dava un potere terribile, erano in realtà degli abbietti vigliacchi. Il primo venuto,—straniero ben inteso,—di un man rovescio ne faceva una pecora, malgrado le sacche piene di coltelli e di pistole e le mani armate di anella e di randelli. Questa roba guardava di un'aria truce le persone che entravano, pronta a stender la mano per dimandare una mancia senza pretesto, se colui che veniva in quella bolgia aveva un aspetto di persona comoda.
Don Diego traversò la corte ciottolata di quei ceffi sinistri. Essi si avanzarono e si scovrirono innanzi ad un signore che saliva le scale nel tempo stesso. Questo signore, vedendosi seguito da un uomo dai lineamenti imponenti e malinconici, si fermò sulla soglia e voltandosi l'interpellò.
—Di chi chiedete?
—Del signor commissario, rispose Don Diego.
—Sono io, disse l'altro. Chi siete?
—Don Diego Spani.
—Ah! fece Campobasso. Vieni
Al suo passar dall'anticamera zeppa di gente, tutti si alzarono. Campobasso tirò innanzi senza salutare e si diresse verso il suo gabinetto.
Un ispettore gli parlò a voce bassa.
—Fatela entrare, rispose il commissario.
Si assise e lasciò Don Diego in piedi in un angolo della camera.
Il commissario Campobasso era un uomo di una quarantina di anni, alto, snello, brunissimo, un po' calvo, gli occhi neri fiammeggianti, i lineamenti pronunziati e duri, avendo mustacchi neri, labbra crudeli, naso aquilino, braccia lunghe, mani grasse ed uncinate, la voce forte, la parola breve. Portava un diamante per bottone di camicia, dei cornetti contro la jettatura per breloques. In una parola, una fisonomia petulante, piena di vita, di violenza, di passioni sensuali, prontissima alla collera. Egli era carnefice, tra i carnefici commissari di polizia in Napoli. È restato come una leggenda.
Conservò il suo cappello sul capo.
La