Il Re prega. Ferdinando Petruccelli della Gattina

Il Re prega - Ferdinando Petruccelli della Gattina


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dalla polizia al culto. Quest'ultima speranza però riluceva appena. Si recò, malgrado ciò, dal barone di Sanza e gli raccontò la sua conversazione col commissario.

      —Ma, già! sclamò il giovane, gli è così, ed essi han ragione.

       Ciascuno per sè. Ebbene gli è giustamente questa rete infame di prete

       e di sbirro, la quale avvinghia la società, che trattasi di tagliare.

       Ci pensate voi sempre?

      Don Diego sorrise ed uscì.

       Indice

      L'entrata nella vita civile.

      Don Domenico Taffa, capo di dipartimento al ministero degli affari ecclesiastici, come dicevamo testè, toccava un mensile di cinquanta ducati—180 lire gravate di ritenute. Egli dimorava al terzo piano di una bella casa alla salita di Magnocavallo, il quartiere elegante della ricca borghesia, e pagava 2500 lire l'anno. L'appartamento, vasto, ben aerato, lindo e gaio, mobigliato con ricercatezza: del palissandro,—allora prezioso ancora,—cortine di seta, tappeti, porcellane, quadri, una bella biblioteca, dei bei cristalli, degli specchi dovunque. Un lacchè in livrea si teneva stecchito nell'anticamera. Una donna confezionava, starei quasi per dire, ricamava la cucina. Una graziosissima cameriera riempiva gli uffici di governante.

      All'istante in cui Don Diego si presentò, la tavola non era ancora disservita, ed ei potè intravvedere la bella argenteria, la bella biancheria di Sassonia ed i residui di un ricco dessert.

      Don Domenico fiutava e sorbiva il moka nel salone con alcuni amici, e Don Diego rimarcò, quantunque poco conoscitore, il bel servizio di porcellana inglese di Minton e la cristalleria di Boemia. Tutto ciò, mediante 180 lire al mese! Era la ripetizione in permanenza del famoso miracolo dei pani e dei pesci, di cui, a vero dire, gli impiegati di S. M. Siciliana conoscevano tutti il secreto. L'han dessi dimenticato di poi, o non ne han lasciato memoria?

      Questa opulenza sembrò quasi regale a Don Diego, ed ei provò una specie di trepidazione involontaria. Ebbe per un momento l'aria goffa ed imbarazzata. Aveva dato il viglietto del capitano Taffa al domestico, ed aveva fatto domandare se lo si poteva ricevere. Cinque minuti dopo, Don Diego era introdotto nel gabinetto di Don Domenico.

      Questo personaggio avviluppato in una calda zimarruola, uno steccadenti fra le labbra, entrò quindi a poco e toccò un piccolo campanello per chiamare un domestico che venisse a rimuovere il fuoco del braciere.

      Ei navigava fra i cinquant'anni e di già si brizzolava. La sua taglia tendeva all'adipe. Aveva viso aperto, rubicondo, quadrato, minuziosamente raso, da brav'uomo; era lindissimo e si dondolava camminando. Le sue labbra erano carnose, rosse, grosse, i suoi occhi vivaci. Parlava il dialetto napolitano, si fregava le mani ad ogni frase, mirava al concettino, aveva maniere senza ritegno, la voce mingherlina. Egli adorava Pulcinella, al teatro San Carlino, Casaciello, al teatro Nuovo.

      La biblioteca era chiusa a chiave, ed alcuno non si avvisava di toccare a quelle opere così bene legate, così bene in ordine dietro i cristalli, come dei mobili appropriati al gabinetto. Il tavolo era coperto di carte, una corrispondenza di larghi dispacci, coi grandi suggelli di cera rossa stemmati. Don Domenico era l'amico ed il confidente di due potenze: il ministro degli affari ecclesiastici, il confessore del Re. Egli provvedeva di vescovi il ministro che s'intendeva col confessore, e costui li faceva approvare da S. M., nel cui nome erano proposti alla Santa Sede.

      Ciò spiega l'importanza di Don Domenico e la sorgente della sua fortuna.

      Uscito il domestico, chiuse le porte, il provveditore di vescovi che aveva fatto sedere il povero prete accanto a lui, credendolo un cliente, gli dimandò con voce affatto melliflua:

      —Vogliate dirmi, signore, qualche parola sulla vostra persona, e che cosa posso fare per voi, perchè mio fratello vi raccomanda a me con interesse.

      Don Diego raccontò la sua storia senza nulla omettere, eccetto le sue opinioni politiche e religiose.

      Don Domenico cangiò portamento.

      —Riconosco ben là mons. Laudisio, diss'egli. Quel diavolo di uomo ci dà più bisogna egli solo che tutto l'episcopato del Regno preso insieme. Gli è un uomo fuori classe quello lì. Doveva essere prefetto di polizia: se n'è fatto un vescovo.

      —Il vescovo non ha assorbito il prefetto di polizia, osservò Don

       Diego.

      —Ebbene, figliuolo mio, ripigliò Don Domenico, giuocherellando col curadenti, io non so proprio, io non so assolutamente che fare per voi. Voi siete povero….

      —Poverissimo, interruppe Don Diego.

      —E ciò che è peggio ancora, soggiunse l'impiegato, voi sembrate aver del merito, della dignità e dell'ambizione.

      —Dell'ambizione propriamente, no, rispose Don Diego. Ma io ho bisogno di vivere e di dare a vivere a mia sorella.

      —Diavolo! voi siete afflitto ancora di una sorella?

      —Sì, sclamò Don Diego: potrei quasi dire di una figlia.

      —Che età ha dunque vostra sorella?

      —Non ancora diciotto anni.

      —È dessa bella?

      Don Diego guardò il suo interlocutore di un'aria malcontenta, esitò a rispondere, poi disse, sospirando:

      —È bella come la Vergine Maria, e pura come ella.

      —Diavolo! diavolo! incalzò Don Domenico; ciò complica la situazione….

      —E triplica la spesa, soggiunse Don Diego, ghignando.

      —È dessa maritata, vostra sorella?

      —No.

      Don Domenico restò qualche tempo a riflettere, poi proruppe:

      —In fede mia, no: io non posso nulla fare per voi. Di un cattivo prete, toccato dalla Grazia ed inscritto al Gran Libro, si può ancora, a peggio andare, tirare un vescovo, un monsignor romano, un canonico, un abate. Ma voi avete su di voi gli occhi della polizia e siete povero. Accomodate ciò, se potete.

      —L'è proprio così, sì: sorvegliato, pitocco, e non un amico.

      —Oh! gli amici poi non si scontano al Banco di Napoli, e non se ne trovano che per averli a pranzo o per farsi mettere a male. Il migliore amico di questo mondo, mio caro, è il re….

      —Fosse anche un travicello?

      —Fosse anche un re a Statuto, purchè impresso alla zecca su delle rotelle di argento e d'oro.

      —In questo caso, sclamò Don Diego, io sono sans-culottes.

      —Se voi aveste solamente sei poveri mille ducati!

      —Una miseria! che!

      —Gli è che monsignor Cocle, dappoi che egli ha quella piccola

       Passaro, diviene un baratro spaventevole. E' non trova mai che basti.

      —Un confessore di re? pensate mo! Allora?

      —Ebbene, dei sei mila ducati, tre mila a monsignor Cocle, due mila a Sua Eccellenza, il mio ministro, e mille per il vostro umilissimo servitore. Gli è per un boccone di pane! E' mi rubano, quei briganti tonsurati. Almeno se mi lasciassero le mani libere! Se quei maledetti vescovi morissero almeno presto! Ora i miei superiori cominciano perfino a trovare la mia mercanzia un cotal poco punticcia. C'è per dio da disgustarsi del mestiere.

      —E se io trovassi codesti sei mila ducati? domandò Don Diego.

      —Ah! per tutti i santi! procurate di averli e fate presto. Un'occasione superba, in questo momento. Il vescovo di Teramo è morto d'indigestione, disse egli. Il suo posto è a riempire. Il vescovado rende


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