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per scegliere i suoi complici.
—Ma io non cospiro, gridò Don Diego.
—Contatela ad altri, figliuolo, replicò il commissario. Non sono forse i vostri amici che vi hanno denunziato?
—I miei amici! Ma io non ho amici, io.
—I vostri complici, se vi piace meglio, Insomma, coloro che conoscono i vostri fatti ed i vostri pensieri.
Don Diego parve schiacciato.
—Voi non sapete mica dunque, innocente provinciale, continuò Campobasso, che quando voi cospirate, noi altri, noi, siamo sempre un po' della partita. Cercate bene nella vostra memoria, e vi ricorderete chi ha potuto essere il vostro Giuda.
—Io non ne conosco alcuno, replicò Don Diego con semplicità.
Poi soggiunse, per correggere lo sbaglio:
—D'altronde, io non ho giammai cospirato.
—Davvero! sclamò Campobasso, voi mi fate pietà. Voi avete una natura generosa, senza fiele; io m'interesso a voi. Al vostro posto, io mi vendicherei; ma vi hanno di già sobbillato nel quartiere che io sono un tristo. Perciò rassegnatevi, rendete il bene pel male ed abbandonate Napoli avanti che spiri il termine fisso dal ministro.
—Ma, signor commissario, poichè voi dite che le mie disgrazie vi toccano, non potreste voi suggerirmi un mezzo per far rivocare da Sua Eccellenza l'ordine che mi precipita in un abisso di disastri.
—Io non ne conosco che uno: provare a Sua Eccellenza che le persone che vi hanno calunniato sono vostri nemici e che dessi vendono la vostra pelle per salvare la loro.
—Ma io non li conosco codesti nemici, gridò Don Diego in tuono commiserevole.
—Per Dio! non è poi difficile a comprendere, e' mi sembra. Il ministro ha scoverta la cospirazione di cui voi fate parte. Qualcuno dei vostri complici ne ha parlato caricando il delitto sugli altri. Ora, ei bisogna provare al ministro che voi siete innocente, tutto al più un accalappiato, e che gli altri sono i rimestatori.
Don Diego udì il commissario attentamente, riflettè qualche secondo, indovinò infine la trappola e rispose con calma:
—Io non conosco alcuno, non ho fatto giammai parte di alcuna società segreta. Vedo dunque che la mia sventura è senza rimedio e che debbo soccombere.
—Sta bene, ruggì il commissario sconcertato. Fra quindici giorni, a mezzodì, voi avrete lasciato Napoli. Se no, voi avrete a fare con me.
Don Diego uscì. Gli era troppo: si sentì piegare sotto il peso. Gli si dimandava infamie sopra infamie; lo si circondava di trappole grossolane, cui non si degnava neppure dissimulare; gli si proponeva, senza mercè, ogni specie di cose orribili ed odiose: comprate una carica, siate spia, vendete vostra sorella, prostituitela al confessionale di un gesuita, denunziate i vostri amici, infangate la vostra anima, abjurate le vostre credenze morali e politiche; siate Caino o morite di fame! Il cuore di Don Diego si spezzava e si abbronzava.
Adesso, egli vedeva il suo cammino: solamente aveva a scegliere. Gli si dimandava una metempsicosi infernale. E si trattava forse di un semplice problema di psicologia e di fisiologia sociale? No.
Nella scelta che gli si proponeva era implicata l'esistenza di sua sorella come la sua: la quistione morale si complicava di una quistione di vita o di morte. La scelta sarebbe stata libera, se si fosse trattato da lui solo: non l'era più dal momento in cui l'onore, la vita, l'anima, l'avvenire di Bambina vi erano compresi. Gli si domandava, inoltre, un'eccezione unica alla regola, ovvero quell'abbominevole governo gli proibiva di divenire l'esempio solenne di un prete, colpito dal vescovo ed assolto dalla società, condannato a morte dal potere spirituale e salvo dalla società laica? Il governo si credeva nel suo diritto mettendo in atto l'editto dell'interdetto episcopale, quando non poteva vantarsi d'aver fatto grazia ad un amico, ad un fedele, ad un complice, ad uno strumento.
Don Diego si trovò, senza saper come, nella Villa Reale, assiso sul muro che corre sul mare. La sua testa era abbattuta, le gambe penzolavano, le braccia s'incrociavano sul petto: meditava e piangeva. Sentì le sue guance molli a sua insaputa, quando il tramonto lo fece avvedere che era colà da parecchie ore. Si levò allora, passò le mani sul volto, che si addolcì.
Aveva egli risoluto il suo problema?
Bambina fu stupita a veder suo fratello quasi gaio. Mangiò molto, e si divertì a far delle pallottole di mollica di pane, pensando Dio sa che. S'informò di Don Tiberio e scherzò su i suoi vicini. Infine condusse sua sorella ad udire la musica innanzi al palazzo reale e la ricondusse in carrozza dopo averle fatto bere un sorbetto della regina. Bambina gli disse:
—Come dunque? tu mi vizii adesso?
—Ti do una ricompensa prima di dimandarti un sacrifizio.
—Vedete un po'! E qual sacrifizio don Agamennone degna dimandare a donna Ifigenia?
—Domani tu andrai a confessarti.
—Oh! oh! scoppiò Bambina ridendo. A confessarmi!
—Che vuoi, piccina mia? Siamo a Napoli: ciò è alla moda. Bisogna far dunque come tutti fanno.
—Ed ove andrò a confessarmi, di'?
—Dai gesuiti, dal loro confessore in voga, al padre Piombini che spilluzzica le anime di tutte le dame del gran mondo napoletano.
—E cosa occorre dire a quel rigattiere di cenci d'anime?
—Tutto ciò che ti passerà pel capo. Ma trattasi meno di dire che di lasciar parlare ed ascoltare. Resterai dieci minuti sotto l'alito fetido di quel monaco che t'insozzerà il viso. E che Dio ti riconduca così pura da quella gogna di corruzione come vi sarai andata, tesoro mio.
—Ciò ti farà piacere, fratello?
—Ciò è utile.
—Sia. Andrò e mi divertirò forte a giuocare di astuzia con un gesuita. Poi se non dirà che ha confessato la Vergine Maria, io rinunzio ad esser donna. Buona sera.
Mentre Don Diego se n'era andato alla Villa Reale, il commissario Campobasso si era recato dal prefetto, e questi, in seguito, dal ministro per rendergli conto dell'interrogatorio del prete.
—Ebbene? dimandò il marchese di Sora.
—Eccellenza, è sembrato estremamente abbattuto dell'ordine di espulsione.
—Si è desso lamentato?
—Sì, ma non fino alla bassezza.
—Quale ragione avete voi data dell'adozione di questa misura?
—La denunzia di qualcuno dei suoi complici, che l'ha accusato per mettere in salvo la propria testa.
—E non ha nominato alcuno?
—No, Eccellenza. Assicura anzi non aver complici.
—E poi?
—Si è rassegnato a lasciar la capitale.
—Sta bene. Aspettate miei ordini per dar seguito a questo affare.
—Lo lasceremo tranquillo allora?
—Ora, che uno dei nostri agenti travestiti dia questa lettera ad un commissionario per ricapitarla al suo indirizzo.
Il marchese di Sora prese un foglio di carta e vi scrisse qualche parola in cifre. Poi piegò la lettera in un certo modo, la suggellò senza alcuno stemma e la rimise al prefetto.
—Scusi, Eccellenza, e l'indirizzo?
—Ah! sì, sclamò il marchese. Scrivete.
Il prefetto prese la penna, il marchese dettò:
—Al signor Antonio, mercante di tabacco, Piazza della Carità.
—È fatto. Ora Vostra Eccellenza vuole ella il rapporto della giornata?
—Me