Il Re prega. Ferdinando Petruccelli della Gattina
famiglia. Ma don Diego, nel suo severo silenzio, imponeva a quest'uomo. Senza curarsene, egli controllava le operazioni e la condotta di questo arciprete, il quale non osava nulla per paura d'aver poscia a renderne conto al suo subordinato nelle congreghe del capitolo della parrocchia.
Don Diego aveva inalzata una barriera insormontabile tra i suoi compatriotti e lui. Egli non andava al caffè come gli altri preti. Egli non giocava, perchè povero. Egli non aveva ganza, come tutti gli altri ecclesiastici,—mons. Laudisio non escluso. Egli non faceva mai visite e non riceveva alcuno in casa sua. Egli passeggiava solo, sulla strada di Calabria, lontano, ben lontano dal borgo. Egli non faceva del bene e disdegnava fare del male. Egli disprezzava gli uomini e s'incaricava poco del cielo. Non dimandava nulla, trovando tutto al di sotto della sua capacità, de' suoi desiderii, de' suoi mezzi; non manifestava alcuna ambizione avendole tutte; non lodava il governo, e se taluno de' suoi compatriotti gliene parlava, rispondeva con un sorriso grave di accuse: de deo pauca, de rege nihil! Lo si riputava carbonaro, massone, mazziniano, unitario; egli vagheggiava tout bonnement le dottrine di Saint-Just e di Robespierre, la libertà della dittatura.
Don Diego non comprendeva chiaramente che gli estremi. Era inflessibile. Lo Statuto o la Carta, come la si chiamava allora, l'eclettismo, la grazia, la misericordia, le due Camere, la confessione e l'assoluzione, la provvidenza, la forma ideale, in una parola tutto il giusto mezzo della scienza, della politica, delle belle arti, della teologia, della filosofia, della società civile—era a' suoi occhi un non senso. Tutto o niente! l'aut Cesar aut nihil del figlio di Alessandro VI: ecco la sua divisa. L'astinenza o l'orgia, l'ateismo o un dio-travicello, il rey neto o dei consoli al mese, l'aristocrazia o la plebe, la schiavitù della donna o l'amor libero al di fuori del matrimonio…, tali erano le sue credenze, la sua regola di condotta interna, pur subendo la legge inconseguente del mondo tal quale esiste. Il suo spirito non rinculava in faccia a qualsiasi abisso; la sua persona si curvava sotto il giogo sociale.
Si susurravano sul suo conto, nelle chiacchierate di provincia, le più infami, le più strane, le più assurde calunnie. Lo si credeva alchimista, amante di sua sorella, mago, fabbricatore di monete false, assassino di fanciulli e sacrilego, cospiratore, autore di libelli ingiuriosi, empio, socialista, ateo, santo che faceva dei miracoli per disannoiarsi, dotato della potenza di evocare gli spiriti, possessore di un demone famigliare, nasconditore di briganti, corruttore…. Don Diego subiva la calunnia come egli soffriva la miseria—con impazienza ma senza lamentarsi agl'impotenti, puntando il giorno, l'ora, l'occasione di uscirne, di spogliarsi del suo sordido inviluppo di larva e divenire essere alato. In che modo? quando? Giammai forse! e' si diceva. Ma egli concentrava tutte le forze ardenti della sua anima su questo punto, viveva di quest'ora di sogni.
—Vuoi delle ova? dimandò Bambina, passando a costa di suo fratello nel giardino e ribassando la sopragonna cui aveva riboccata sul capo.
—No, rispose Don Diego, continuando a passeggiare.
Bambina entrò nella sala, accese un candeliere con una miccia intinta nel zolfo,—come usavasi allora,—e cominciò a mondare l'insalata.
Ella pensava a qualcuno, che allora abitava Napoli, e borbottava il suo rosario, querelandosi nel tempo stesso col gatto, col cane e col porco. Quand'ella si ebbe accomodato in un piatto la scarola e la rughetta, guardò se la pignatta bolliva. E come l'acqua cantarellava di già, prese un pizzico di sale nel mortaio, una cucchiaiata di lardo triturato sul tagliere, e gittò il tutto nell'acqua bollente con qualche foglia di prezzemolo. Poi andò a prendere un piatto di farina di granturco e cominciò a versarla a guisa di neve, a piccoli pugni, nella pentola, agitando la mischianza col matterello. Quando pensò di aver messo abbastanza farina e di averla abbastanza rimescolata per frangere i grumi, si allontanò dal fuoco e lasciò che la polenta cuocesse dolcemente.
—Andiamo, su, Marco, diss'ella al maiale aprendo la porta della strada: è tempo di andarti a coricare. Hai mangiato come un vescovo.
Marco non oppose alcuna resistenza. Esso provò solamente di asciugare il suo grifo alla veste della giovinetta, la quale gli allungò un calcio. Bambina lo andò a rinchiudere nel piccolo porcile all'angolo della casa, mettendolo così al sicuro dai festini dei lupi, che si permettevano di tempo in tempo una discesa notturna nel borgo e si regalavano di prosciutto fresco, di piedi tartufati e di un sanguinaccio senza intingoli. Quest'operazione compiuta, Bambina rientrò, chiuse la porta a chiave, avvicinò al fuoco una tavola sulla quale spiegò una tovaglia grossolana e pulita, pose due forchette e due cucchiai di ferro, due piatti, il candeliere, l'orciuolo di creta a becco pieno di vino, un grosso pane nero raffermo di parecchi giorni, e l'insalata. Poi andò a chiamare il fratello.
Don Diego rientrò e venne a sedere al suo posto. Un'ora di notte sonava,—un'ora dopo l'Angelus. Io conto al mo' del mezzodì d'Italia.
—Ho incontrato la signora di Craco oggi, uscendo da vespro, disse
Bambina. Ha ricevuto una lettera di Don Tiberio.
—Ah! sclamò Don Diego, affondando la sua forchetta nel piatto dell'insalata.
Il fratello e la sorella mangiavano nello stesso piatto.
—Don Tiberio ha preso il suo diploma in dritto ed entra come aspirante nella carriera diplomatica.
—Tanto meglio.
—Sua madre crede nonpertanto che Don Tiberio farà nel mondo tutt'altro che della diplomazia.
—Tanto peggio.
—Cosa hai dunque, Diego? Tu non mangi e rispondi per monosillabi.
—E tu, figliuola mia, tu parli troppo dei De Craco.
Bambina arrossì.
Don Diego non la guardò.
Ella andò a pigliar la polenta senza rispondere e la versò in un gran piatto.
—Ho un presentimento, continuò Don Diego tuffando il suo cucchiaio nella polenta.
—Di guadagnare un terno alla lotteria? chiese Bambina, sorridendo.
—L'arciprete mi ha dimandato se voleva dare lezione ai suoi nipoti.
—Altri dicono: ai suoi figliuoli, obbiettò Bambina.
—Fanciulla mia, riprese Don Diego, non ripetere giammai ciò che si dice. Io sorrido di una malvagità che s'inventa. Una calunnia che si porta intorno, mi dà nausea.
—Portare intorno è più facile, osservò Bambina.
—Ebbene, rispose Don Diego, le avvenenze piaggiatrici di quell'uomo nascondono una trappola od una disgrazia.
—Perchè no un favore? sclamò Bambina togliendo su il tondo della polenta a cui suo fratello non toccava più, e mettendo sulla tavola qualche cipolla, qualche mela ed un pezzo di caccio di capra che civettava la pietra pomice.
—Un favore? replicò Don Diego sorridendo.
—Perchè no? quelle bestie lì sanno altrettanto bene leccare che mordere.
Il martello della porta scoccò tre colpi. L'orologio della chiesa suonò un'ora e mezzo. Il fratello e la sorella si guardarono negli occhi, come se arrivasse qualche cosa d'insolito e di straordinario.
—A quest'ora! disse Bambina.
Don Diego si alzò ed andò ad aprire.
—Buonasera a vossignoria, don Diego, disse entrando il famigliare della Curia (la cancelleria del vescovo). Vi porto una lettera del segretario di monsignore.
—Date qui, disse Don Diego prendendo la lettera. Vi occorre risposta?
—Non mi han detto nulla.
—Entrate, mastro Prospero, gridò Bambina. Che io vi versi un bicchiere di vino.
—Mille grazie, donna Bambina, rispose il famigliare, cioncando due bicchieri mentre Don Diego leggeva la lettera.
—No, disse questi: non vi è risposta a dare.
—Buona