Il Re prega. Ferdinando Petruccelli della Gattina
Diego richiuse la porta, poi ritornò a sedersi a tavola senza fiatare.
—Che vogliono dunque? chiese Bambina.
—Leggi e capisci se puoi, rispose Don Diego porgendole la lettera.
Bambina prese il foglio episcopale e lesse a voce alta:
«Signore reverendissimo,
«Sua Eccellenza Reverendissima monsignor di Policastro v'invita a passar domani al palazzo episcopale, dopo la messa, a quattordici ore, avendo talune cose a comunicarvi personalmente.
Di V.a S.a Riv.
«Umilis. e divot. servitore
«Il segr. ALBINIO CASALE.
—Hai tu compreso? dimandò Don Diego.
—Ciò non può essere un disastro, sclamò Bambina. Tu non hai fatto nulla.
—Ciò non può essere un favore, replicò Don Diego. Io non ho domandato nulla ed ho meritato così poco.
—In questo caso, che Dio ci protegga, esclamò Bambina. Io non c'intendo nulla ed ho paura di tutto.
Una lagrima spuntò negli occhi del prete, una lagrima appena comparsa che bruciata. Egli guardò sua sorella e sclamò:
—Ah! se io fossi solo!
—Due valgono ancora meglio! rispose costei ed andò a coricarsi.
Don Diego passeggiò nella camera fino a mezzanotte. Poi preso dal freddo,—il fuoco si era estinto,—andò anch'egli al suo giaciglio mormorando:
—Infine, vedremo.
II.
Come il vescovo di Policastro accudiva il suo ovile.
Monsignore Laudisio era un vescovo secondo il cuore del re. Egli si preoccupava mediocremente di esserlo secondo lo spirito di Dio. Lo si era innalzato a quel posto per dargli una ricompensa. Monsignor Laudisio aveva denunziato parecchie migliaia di carbonari, snidati al confessionale nel tempo delle sue missioni evangeliche, quando era monaco nella congregazione di San Alfonso de Liguori. Lo si era installato come vescovo in una provincia, in una diocesi, le più infette di liberalismo,—il Cilento,—ed egli dominava nel vescovato di Policastro e Lauria.
Egli esercitava le funzioni apparenti di vescovo; le funzioni intime di alto commissario di polizia della provincia. Monsignore Laudisio corrispondeva poco punto col papa e col ministro del culto; quasi tutti i giorni col ministro della polizia. Egli aveva aperto, oltre a ciò, un grande ufficio di collocamento di sudditi fedeli al trono ed all'altare. Si dibatteva il prezzo direttamente con lui, il sant'uomo, perocchè egli era avaro come un prete soppannato di un vescovo, un vescovo foderato di un monaco. Egli non faceva punto mistero di questo traffico; all'occorrenza avrebbe trattato innanzi notaro! Si depositava al Banco, al suo indirizzo, il danaro convenuto qual prezzo del posto, e monsignore andava a pigliarselo quando le convenzioni verbalmente stipulate erano adempite. Egli riceveva molti regali di ogni sorta. Ma una gran parte di questi doni, bisogna pur confessarlo, pigliava la volta di Napoli onde intrattenere le piccole amicizie degl'impiegati e richiamarsi alla memoria dei ministri. Re Ferdinando gli dava del tu e gli baciava la mano. La regina austriaca orlava per lui dei moccichini di seta delle Indie e gli regalava del tabacco da naso. Egli raccontava storielle ai piccoli principi, e le piccole principesse giuocarellavano col suo berrettino e con la sua croce episcopale.
Monsignor Laudisio portava la sua dignità con un'aria di gendarme. Aveva il verbo alto, la voce un poco rauca a causa del suo lungo predicare. Ei declamava, anche dicendo un: come stai, figliuolo mio? Aveva i modi vivi, intermittenti, mostrandosi a volta a volta brusco od insinuante, secondo la convenienza, le disposizioni dell'animo, la natura dell'affare, il carattere e la condotta dell'individuo con cui trattava. Egli piaggiava anche talvolta. Nella collera poi ruggiva, dava calci, pugni, schiaffi;—ma in quest'ultimo caso aveva cura di voltare al di dentro l'amatista del suo anello episcopale, per imprimerla sul viso dell'infelice cui batteva.
Egli mangiava enormemente, grossolanamente, ma beveva con sobrietà. Non si obbliava che a disegno. Monsignor Laudisio camminava sollecito, dritto, capo alto, seminando le sue benedizioni a manate, a chi ne voleva e sopratutto a chi non ne voleva. Il suo aspetto magro e pallido era dotato di una grande mobilità,—ciò che aumentava la sua grande forza di mimo, la quale lo aveva fatto riescire nella sua parte di missionario. Egli spremeva delle gocciole dalla sua glandola lagrimale a volontà, anche dicendo: Il diavolo ti pigli, figliuolo benedetto! Non uno dei suoi capelli grigi era caduto. Aveva non di meno cinquantasei anni e quattro o cinque divote morte…. sul campo del confessionale. La sua giovialità lo lasciava di rado. Non provava alcun rimorso, e non aveva a sperar altro che di succedere al santo ubbriacone Gregorio XVI. Vi pensava? Chi lo sa? Monsignor Laudisio opinava che col danaro si può tutto osare; che con una croce episcopale sul petto, e l'assenza di coscienza nel petto si può tutto sperare,—dal triregno e l'aureola di santo ad un posto nell'alcova della regina. L'espressione della sua fisonomia rassomigliava alquanto a quella del becco, ma addolcita, starei per dire femminizzata dalla pallidezza del suo colorito, dal sorriso schernitore che la rischiarava costantemente. La sua bocca poteva mordere e baciare, bevere e piaggiare.
Monsignor Laudisio gettava il terrore fra i liberali della provincia; ma egli rendeva volontieri servigio agli amici del re e della fede—mediante pecunia. Egli dava ordini ai prefetti, alla gendarmeria, ai presidenti dei tribunali: si sarebbe detto che avesse ministri e re nella scarsella. Sapeva di tutto. Ed in realtà, sapeva molto: lettere e scienze come affari. Nessuno raccontava un aneddoto bernesco o lugubre al pari di lui: egli possedeva la vena della buffoneria al grado supremo. Onde è che bisognava vedere come le religiose dei conventi ammattivano per lui e come le gonne correvano dietro alla sottana violetta.
Con i liberali, con i filosofi, con i liberi pensatori cui non terrorizzava, con coloro che punto nol temevano o non avevan bisogno di lui, egli prendeva un'aria untuosa, melliflua, e dava ad intendere che, se il suo mestiere di vescovo gl'imponeva una certa condotta, il suo cuore era lontano dal giustificarla. Egli mi ha detto un giorno, a me che scrivo queste pagine: «Nessuno fa il carnefice di cuore gaio; io sono più italiano di voi!»
Egli utilizzava tutto. Gli uomini, i fatti, gli avvenimenti, le passioni, divenivano nelle sue mani delle pedine che l'aiutavano a giuocar la sua partita di scacchi. Egli scandagliava un'anima, pesava un uomo con uno sguardo. Guai a chi era più forte di lui, o poteva divenire un ostacolo! Egli si serviva di una calunnia, che poteva partorire una sentenza capitale, come di un agnus dei a dare ad una beghina. Però egli largiva gratis un'assoluzione in articulo mortis alla sua vittima, e si scomodava per andarla a confessare in persona ed accompagnarla al patibolo.
Tale era l'uomo che aveva fatto chiamare Don Diego Spani.
Don Diego si trovò al palazzo vescovile all'ora indicata. Monsignor
Laudisio, da uomo che ha dell'ordine ed una buona memoria, era esatto.
E qui due osservazioni indispensabili per i lettori del 1872. Non bisogna paragonare il clero napolitano di quell'epoca col clero attuale e giudicarli come di un sol tipo. La specie è la stessa, differisce il genere. Non bisogna credere inoltre che io m'imbrigo a disegno nel clero e nella polizia per destare orrore. La società delle provincie dell'Italia meridionale di quei tempi sinistri era polizia e clero, o vittima di queste due instituzioni infernali. I Borboni di Napoli non hanno avuto del genio che nella polizia: Canosa, Intondi, Delcarretto, Picchineda, Mazza…. figuratevi il non plusultra del genere! Di qui la rivoluzione del 1848, poi il successo di Garibaldi sans coup férir!
Non appena il cameriere di monsignor Laudisio annunziò Don Diego, monsignore lo fece entrare. E' terminava un dispaccio per il ministro dei lavori pubblici. Perocchè monsignore aveva assunto l'impresa di una strada, alla quale non si lavorava punto, e per la quale il consiglio d'intendenza faceva istanza che fosse terminata. Monsignore rosicava