Il Designato. Luciano Zùccoli

Il Designato - Luciano Zùccoli


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e ogni falso o corrotto insegnamento si sarebbe trasformato in un germe pericoloso del quale avrei colto io il frutto.

      Quindi, potevo e dovevo essere l'amante, ma un amante castigato, limitato, rettissimo.

      Volgendo nel mio animo questi pensieri, m'ero ritratto dalla finestra ed ero venuto ad appoggiarmi colle braccia sul marmo del cassettone. Innanzi, lo specchio mi rifletteva pallido con un sorriso un po' convulso, e la lucentezza dello sparato chiuso quadratamente nell'abito, mi dava un'aria quasi severa.

      Il profumo dei fiori vibrava fortissimo alle nari; dall'uno lato e dall'altro dello specchio, due vasi di porcellana traboccavan di narcisi e di garofani e d'anemoni e d'altri fiori vigorosi. Levai dal gruppo folto una gardenia, che soffriva più dei compagni e la passai nell'occhiello.

      C'eran molte persone, le quali pensavano a noi in quell'istante. La nuova del mio matrimonio s'era sparsa per Milano e fuori con rapidità e maraviglia. Gli amici non si figuravano me nella notte presso Lidia? non analizzavano con cinica irreverenza il nostro amore che s'iniziava? nell'ombra non si preparavan già delle insidie? Io avrei trovati i mezzi d'intercludere il passaggio a qualunque insidia tesa sulla via della mia donna.

      E anche questo dipendeva dal momento in cui ero. Laura Uglio non era tornata dalla prima notte di matrimonio così nauseata, da giustificare il suo adulterio avvenuto tre mesi dopo? Angela Tintaro non aveva nella prima notte di matrimonio giurato di darsi a una donna, e a uomini mai più? Quanti mariti maldestri non avevano in poche ore mutata una fanciulla in un'impura colomba, presto insaziabile? Aneddoti sparsi nelle mie memorie, dei quali capivo a un tratto la sapienza….

      Secchi e sonori per l'amico silenzio, l'orologio del giardino diffuse dodici colpi.

      Li contai adagio, smorzai i lumi, lasciando accesa la sola lucerna pensile. Mi diedi un ultimo sguardo nello specchio: la gardenia, lo sparato candido, l'abito nero, anche il viso molto pallido, sembravano giovarmi. Al momento d'aprir l'uscio, ero tranquillo; meglio, ero ilare e sicuro di me; avevo un indiavolato bisogno di scherzare. Apersi, passai nel salotto oscuro, ma grave di profumi come la mia camera. Un sottil filo di luce rosseggiava sotto l'uscio della stanza di Lidia: troppo intenso, non poteva provenire dalla lucerna da veglia; era la luce d'una lampada portatile. Posta dove? Non presso il capezzale.

      Lidia aveva fatta un'illuminazione nervosa come la mia?

      Bussai leggiermente alla porta di Lidia, e mi sentii sorridere.

      L'orologio ribattè i dodici colpi nel giardino. Che lampo era stato e che eternità quell'intervallo!

      Avvertii un lieve romore: poi il silenzio proseguì dovunque.

      —Lidia!—dissi ponendo la mano alla gruccetta dell'uscio.

      —Avanti!—rispose con voce soffocata.

      Apersi l'uscio e guardai.

      Lidia, in accappatojo, coi capelli sciolti, aspettava in piedi presso una poltrona. Da una tavola sotto la finestra, una lampada alquanto attutita dal paralume a smeriglio, sprigionava luce blanda, quasi pulviscolo azzurrato, che veniva a stendersi sui capelli, sulla fronte, sulle guance di Lidia e le dava una stanchezza, come dopo il ballo, al sorger dell'alba. L'atteggiamento della giovane denotava un'apprensione vivissima, tradita pure dal respiro precipitoso che le agitava il seno.

      —Non ti sei coricata?—domandai, mentre avanzavo richiudendomi l'uscio dietro le spalle.

      Lidia fe' cenno di no colla testa.

      —Hai avuto paura?—dimandai di nuovo, prendendole una mano.

      Lidia fe' cenno di sì.

      Mi sedetti sulla poltrona a cui ella era appoggiata, e tenendo tutt'e due le mani di Lidia, attrassi la fanciulla sulle mie ginocchia.

      —Vediamo,—dissi, posandole le labbra sulle labbra caldissime ed immobili.—Io son desolato d'essere costretto a disturbarti; ma non prevedevo di trovarti ancora alzata. Volevo semplicemente augurarti la buona notte. Sorridi?… Non bisogna dubitare delle mie parole,—aggiunsi, mentre mi scoprivo a sorridere io pure.

      Noi, così seduti, avevamo la tavola colla lucerna alle spalle e di fronte il letto; il letto sui guanciali serbava l'impronta della testa di Lidia e le coperte apparivano già rimosse. Evidentemente, Lidia s'era coricata, e vinta a un tratto da un'impazienza nervosa, aveva dovuto alzarsi.

      La fanciulla afferrò il mio sguardo, arrossì, e rise lievemente.

      —Questa paura!—continuai.—Non t'ha lasciata riposare? Ma di che cosa hai paura? Di me?—

      Le presi la testa fra le mani e l'obbligai a guardarmi; i suoi occhi azzurri continuavano a ridere sì piacevolmente, ch'io li avvicinai e li baciai senza aspettare la risposta. Finalmente, le labbra di Lidia si mossero a restituirmi il bacio. Il sistema, come il più semplice, era dunque anche il migliore.

      —Di me, no, senza dubbio,—ripresi.—Non rispondi?

      —Di te, no, senza dubbio,—ripetè Lidia a voce bassa.

      —Grazie. Ma allora, non capisco più nulla!

      Lidia abbassò la testa, guardando la mia gardenia, un po' ingiallita. Io sentiva il profumo del fiore levarsi dalla massa bionda dei capelli di Lidia, dall'accappatojo, dalle braccia un po' scoperte, dal busto senza fascetta, che mi s'appoggiava contro, in una perspicuità di linee assai tormentosa. Presi la gardenia e tentai di collocarla sul petto della fanciulla; ma non appena allungai la mano, Lidia portò le proprie, arrossendo, sopra i ganci che le chiudevan l'accappatojo fino al collo. Il sistema non era dunque il migliore.

      —Perchè non hai fatta accendere la lucerna da veglia?—chiesi, tornando a infilare il fiore nell'occhiello.

      —Non ci ho pensato,—rispose Lidia.—Vuoi accenderla tu?

      S'io mi fossi alzato, Lidia avrebbe preso il mio posto ed avrei perduta una strategica posizione.

      —Accendila tu!—ripetè Lidia.

      La mia considerazione rapida doveva essere stata fatta anche da Lidia. Ella si levò dalle mie ginocchia e rimase in piedi presso il letto; nel mentre abbassavo e accendevo la lucerna, Lidia non si ricordò di sostituirmi nella poltrona; mi guardava impacciata, colla mano destra sul guanciale.

      —Ora c'è troppa luce,—disse.

      M'avvicinai alla tavola e posi innanzi a quella lucerna una specie di ventaglio roseo, che mutò sùbito la luce viva in altra delicatissima. L'accappatojo di Lidia prendeva una tinta deliziosa, difficile a riprodursi, che pareva gradazione di due colori soavi compenetrati. Rimasi un istante a gustare il quadro. Lidia continuava a guardarmi coi grandi occhi turchini.

      M'accorgevo che se avessi ceduto alla mia volontà, invece di riprendere il posto nella poltrona, come feci, avrei abbracciata Lidia e l'avrei atterrita coll'irruenza d'un amore represso e rattenuto per due anni.

      —Non ti senti stanca?—le chiesi, senza pregarla d'avvicinarsi.—Vuoi coricarti? È passata la mezzanotte.

      La fanciulla girò la testa intorno, come cercasse un angolo discreto.

      —Io me ne andrò,—aggiunsi.—Vuoi?

      —Sì,—rispose Lidia, movendosi per aprirmi l'uscio.

      Quando fummo sulla soglia, ella tradì una fuggevolissima esitazione, come ogni volta respingeva un pensiero malagevole ad enunciarsi.

      —Io aspetto qui in sala…. Volevi dirmi?

      —Volevo dirti questo, appunto,—ella confessò. E per nascondere il suo turbamento, si ricoverò fra le mie braccia.

      Provai tale un'impressione di tutto il suo corpo sul mio, tale una vertigine di piacere, che dovetti ricordarmi il proposito di non fare un'invasione da barbaro,—per resistere all'agitazione di prender Lidia e portarla sul letto e spogliarla io. Non dubitando del cimento al quale mi sottoponeva, Lidia rispose a un tratto al mio bacio e mi circondò delle braccia il collo.

      —Sei


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