Il Designato. Luciano Zùccoli

Il Designato - Luciano Zùccoli


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momento, la donna era assorta nella contemplazione della cascata di Madesimo, presso Pianazzo, balzante rivo d'acqua bianchissima, spumosa, lunga e molle, che rallegrava d'un tratto la montagna nera e nel silenzio della strada deserta mormorava con liquida cadenza. Madesimo, l'elegante ritrovo, era alla nostra destra e larghi affissi sopra una casa cantoniera ne indicavan la via; ma pel bisogno di calma ch'io sentiva, per il tepido fiorir dell'amore di Lidia, il luogo riusciva troppo chiassoso e vivace.

      Più oltre, e a più fresca altezza, attirò gli sguardi della donna il villaggio d'Isola, giù nella vallata, disperso a gruppi di capanne brune, dal tetto acuto, e arrampicate pel versante dell'opposta montagna in notevole estensione e in una mutezza desolante di luce, anche malinconica per la nudità del monte sul quale eran disseminate. Assai piccole e quasi immobili, si scorgevan qua e là delle gregge di mucche. E tutto appariva traverso il fogliame degli alberi che avevamo a fianco della diligenza e che sembrava un immenso ornato, frapposto al villaggio da un artista bizzarro.

      Una particolarità del cammino erano ora le gallerie, attraversanti il ventre della montagna, e sotto le quali passavamo. Istintivamente, Lidia si curvò, come temesse d'urtar la testa nelle travi che sostenevan l'opera ardita, dalle vôlte umide, stillanti, le cui aperture, intervallate a guisa di finestre verso il fianco sinistro del monte, illuminavano con regolar quadrato di luce.

      V'eravamo giunti per una via serpentina, talchè, volgendoci, potevamo ritrovar coll'occhio il percorso fatto.

      Lidia, nella quale l'incontro delle gallerie aveva ridestata la maraviglia graziosamente loquace delle prime tappe, si lamentava del freddo, soffiato coll'aria violenta, che trovandoci in abiti estivi aveva buon giuoco anche sulle coperte da viaggio cui eravamo ricorsi. La molestia durò poco, perchè oltrepassata la vetta dello Spluga e l'ultima cantoniera italiana, cominciò la discesa, prima quasi insensibile, poi rapida così che i cavalli di timone dovevan resistere all'impeto del veicolo piuttosto che favorirlo, e quelli di volata si piegavano abilmente sul fianco per mantener l'equilibrio.

      Era una bella e potente sensazione, questa della discesa. Il paesaggio svizzero si presentava foltissimo di pini, cosicchè pareva vi ci tuffassimo, e il profumo di resina, l'aria nitida venissero ad incontrarci, penetrandoci beneficamente nei polmoni.

      Lidia non mostrava d'essere stanca più di quanto fosse al principio del viaggio e come il sole andava riprendendo calore, ella si toglieva le coperte, sorridendo alla corsa piacevole, colle mani appoggiate allo sportello e il busto eretto; l'onda d'ossigeno le prestava nuove forze; la fatica, lo sbalordimento del viaggio, i mutamenti improvvisi di temperatura, di cui avevo temuto per la fragile donna, svanivano innanzi al bisogno nervoso di giungere, dal quale ella appariva animata.

      La discesa continuava veloce; vedevamo, come già prima la via percorsa, in basso tutta la via da percorrere, a nastro, bianca e soleggiata, ombrosa di tanto in tanto,—e lontana, diritta, eguale, la strada che da Splügen conduce a Nufenen e a Hinterrhein. Lidia m'interrogava sulla situazione della casa Pfaff, dimostrandosi felice del mio disegno effettuato, sentendo inconscia ella pure la voluttà d'una solitudine amorosa, senz'occhi indiscreti.

      I cavalli trottavano ora in piano, in direzione opposta a Nufenen. Erano le sei del pomeriggio e il sole si ritraeva man mano, lumeggiando le case più alte, il cimitero e la chiesetta di Splügen, senza malinconia, quasi con un senso largo di quiete abituale.

      Al passo, traversammo il ponte di Splügen e dal ponte ci arrestammo sulla piazzetta del villaggio, innanzi al Bodenhaus Hôtel, dove un gruppo di contadini raccolto pel riposo della sera, ci salutò con amichevol deferenza.

      In un angolo della piazzetta, ci aspettava la carrozzetta del signor Pfaff, linda e ripulita, colla giumenta saura; e mentre ajutavo Lidia a scendere, il signor Pfaff, uscito dal Bodenhaus Hôtel, mi si fece incontro tenendo il cappello tra le mani.

      Piccolo, tozzo, formidabilmente quadrato di spalle, col viso senza neppure i peli delle sopracciglia, con due furbi occhi cilestri,—il signor Pfaff non era in nulla mutato dall'ultima volta ch'io l'aveva visto, e dimostrava una diecina d'anni meno de' suoi sessanta.

      Egli mi strinse la mano, felicitandosi del mio ritorno, in una specie di dialetto lombardo, da lui imparato per frequenti corse nell'Alta Italia ad acquisti di vini e di bestiame; poi guardò Lidia, ch'era presso di me, esile e dùttile figurina d'adolescente.

      —La mia signora!—dissi.

      Egli s'inchinò sùbito, ma compresi che Lidia non gli piaceva. Non era un tipo svizzero; le mancavano le allegre tinte alle guance, il seno turgido, i fianchi rotondi, e una sola mano del signor Pfaff sarebbe bastata a piegar Lidia come un virgulto. L'istinto, che in quei paesi fa valutar la donna secondo la capacità a lavorare e a produrre attestata dal suo corpo, dava una delusione al signor Pfaff. Lidia era un essere inutile, a suo credere.

      Quando fummo nella carrozzella, guidata dal signor Pfaff e seguìta a distanza da un carro coi nostri bauli, io approfittai della solitudine che si ritrovava appena fuori di Splügen, per baciar lungamente la bocca di Lidia. Era una bocca sì viva di colore e così perfetta di linea, ch'io mi compiaceva a serrarla e a riunirla fra le dita per meglio sentirla sotto le mie labbra.

      In quel momento, il signor Pfaff si volse dal suo sedile verso di noi, ma rigirò sùbito la testa, allo spettacolo, e la tenne poi ostinatamente fissa in avanti, per non disturbarci.

      —Ho fatta posticipare la cena!—egli disse, senza guardarci.

      —Va bene. Avete molti viaggiatori all'albergo?—domandai.

      —Due francesi.

      —Maschio e femmina?

      —Maschi tutt'e due.—

      Volevo chiedere se fossero giovani, ma mi rattenni, vergognandomi dell'impulso. Pensai che fossero due solitarî com'ero io qualche anno prima, e li compiansi; tutto quanto viveva all'infuori del mio amore, estraneo a Lidia, mi giungeva perdutamente sconsolato, ed ero già disposto a considerare i due francesi come anime in pena.

      La strada, a sinistra di Splügen, discendeva per breve tratto, poi saliva e si stendeva piana, a gomiti, costeggiata quando dal Reno, quando dalle pinete, su ambo i lati. Il Reno, che interessava Lidia, quasi un personaggio storico di cui si son lette e udite mirabili gesta sanguinose, era nel tramonto quieto, assai sonoro; una lieve brezza moveva le cime dei pini circostanti lambendoci il viso; il cielo, privo di sole, pareva una gran vôlta sulle nostre teste, e mai quanto allora ne compresi la maestosità.

      —C'è ancora molto?—chiese Lidia.

      —Tre chilometri,—rispose il signor Pfaff, rigido al suo posto.

      —Sei stanca?—domandai io alla donna. Ella negò col capo e mi volse la bocca in modo ch'io fui costretto a ribaciarla.

      Traversando il primo dei ponti che s'incontrano su quella strada, vedemmo il Reno orribilmente serrato fra due montagne a picco, furioso di spuma. Il vecchio fiume balzava, tutto bianco, irrompeva, accelerando la corsa verso i luoghi dove gli sarebbe stato possibile allargarsi immortale e magnifico….

      Anche oggi, mentre scrivo, il Reno ulula così sotto quei monti; ma chi lo guarda cogli occhi amorosi coi quali noi lo guardammo?

      Il crepuscolo ci avvolgeva in un manto cenerognolo, passandoci nell'animo il presentimento d'un gran riposo, nella casetta bianca e ilare che ci aspettava a poca distanza; pareva aleggiassero le sforate d'una ballata di Göthe fra i rami dei pini, inclinati in uno stormir discreto. Non v'era altro che pace, all'intorno, e ombra, e mitissimo grado di calore.

      S'incontravan qualche contadino, qualche addetto alla manutenzione della strada; levavano il cappello, augurando buona sera. Non era il saluto al nostro amore? Buona sera, veramente, quella in cui arrivammo all'albergo del signor Pfaff! Buona sera, che cancellava dallo spirito anni dolorosi d'errori e mi offriva la fede in qualche cosa, nell'avvenire, in me stesso!

      Quando la casetta s'abbozzò nell'ombra, la giumenta saura aumentò l'andatura, nitrendo; dalle finestre si scorgevano i lumi accesi della sala di conversazione e della sala da pranzo, unici fari in mezzo ai pini, ormai simili a spettri. Prima


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