Il Miraggio. Lucio d'Ambra

Il Miraggio - Lucio d'Ambra


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finito. I veri amici di Farnese non avevano avuto il coraggio di cercarlo; gli altri, gli ottimi amici, avevano frugato tutto il palcoscenico per trovare lo scrittore, mentre un'altra squadra volava al suo appartamento di via Sistina, per godere sotto le ipocrite condoglianze, l'effetto malvagio della malvagia opera compiuta. Ma Farnese, avvertito dai reporters dell'Eco di Roma intorno alla cabala che si montava contro di lui, era partito la sera innanzi, dopo l'ultima prova delle Nozze di Don Giovanni, per recarsi qualche giorno a Firenze. Così che a teatro gli ottimi amici non avevan trovato che camerini chiusi e macchinisti affaccendati, tutti nervosi in quella sera di lutto teatrale; ed avendo alla casa dello scrittore trovato chiuso il portone, la banda dovette sciogliersi, dolente del contrattempo, ma felice in fondo del risultato.

      E la mattina e la sera appresso, trepidanti, avevano aperto i giornali perchè se al Farnese non era giunto l'eco delle disapprovazioni, ne avrebbe avuto almeno conto dagli attacchi dei critici. Se non chè anche questo loro desiderio doveva andar deluso. La critica aveva un linguaggio rispettoso verso Farnese, ammirativo per la commedia e stigmatizzante con parole pungenti il contegno della maggior parte del pubblico. Trovavano la commedia fine e sottile, con pregi di dialogo, di sceneggiatura, di finitezza di caratteri, ma con difetti di lungaggini. Tutti, meno due o tre, predicevano un vero successo alle Nozze di Don Giovanni, quando fossero riprese con un pubblico più spassionato. Intanto i buoni amici anonimi avevan messo sotto fascia quei due o tre giornali discordanti e li avevan spediti, falsificando le loro calligrafie, a Firenze, al Savoie-Hotel, dove Farnese era disceso. La sera, su l'Eco di Roma, era apparso un rovente articolo di Marco Torrero, che, ricercando le cause dell'insuccesso e citando anche i nomi dei promotori, esaltava la commedia e prediceva al Farnese un grande avvenire di autore drammatico.

      Al suo ritorno a Roma, apparvero quei suoi due romanzi, seconda maniera, Anime in sogno ed Amori d'autunno. I successi ne sono rimasti memorabili. Tuttavia erano due romanzi falsi e manierati, ove ogni anima aveva un lembo di cielo, ove il mondo era osservato a traverso ad un prisma roseo e brillante. Il romanziere aveva voluto forzare la semplicità e l'intimità della sua prima maniera ed era caduto nell'estremo della semplicità complicata e della falsa intimità. Un giornalista, Giacomo Spada, attaccò alle spalle del Farnese l'etichetta, «un Medoro Savini anglomane e decadente». L'etichetta rimase e pesò presto sulle spalle di Farnese che, da principio, ne aveva riso con la noncuranza sprezzante che viene dal successo. Da allora, dalla fine del mille ottocento ottanta nove data quel romanzo L'Aurora, che fu una vera aurora artistica per lo scrittore e che lo sacrò indiscutibilmente grande romanziere. In esso il Farnese, spogliandosi di ogni preconcetto, aveva chiamato a raccolta tutte le mirabili sue facoltà, per rispondere con un capolavoro alle ironie ed ai sottintesi melati. Ed il capolavoro era riuscito: v'era nell'Aurora un vasto affresco della corruzione e della decadenza moderna e la maestosa pittura si chiudeva con l'apoteosi di un'Idea e la visione simbolica di un futuro secolo ideale. Molte edizioni si esaurirono una dopo l'altra, l'inno concorde salì dalle colonne dei giornali e dalle pagine delle riviste. Una schiera di giovani si entusiasmò per Farnese, divenne il suo drappello, fu pago di vivere del riflesso della sua luce. Altre commedie erano seguite, prima Una Rivolta, che, dopo alcune ostilità della prima sera, filò tranquillamente fra gli applausi un lungo corso di rappresentazioni. Pochi mesi dopo, durante il successo dell'ultimo suo romanzo, una geniale e delicata attrice, la signora Teresa Mariani-Zampieri volle mettere in iscena con gusto d'artista una commedia in tre atti, Messer Arlecchino, che Farnese aveva scritto durante un suo viaggio in Spagna, per non perdere l'abitudine della penna e senza alcuna intenzione di destinarla al teatro. Era una delicata fantasia, il ritorno delle maschere della commedia dell'arte italiana, una follia carnevalesca ed amorosa in un quadro di Watteau, con la grazia autunnale di una festa galante di Verlaine. La signora Teresa Mariani-Zampieri nel variopinto costume di un Arlecchino pieno di grazie vi ebbe un successo squisito, ovunque. E Farnese, senza riposo, si mise di nuovo al lavoro nel suo continuo inseguimento del meglio e del bello ed in un anno, uscirono due altri romanzi suoi: L'infamia umana, dove dieci tipi balzacchiani di vili e d'infami torturavano e macchiavano per sempre una serena anima di giovinetta; Cecilia, dove era narrata la storia di quella giovinetta aristocratica, Cecilia Armenieri, che, fuggita di casa con un uomo alla moda, aveva voluto essere attrice e trionfare su la scena, dove comparve con fortuna ma per breve tempo, per scomparire pochi mesi dopo, non si seppe mai dove, non si seppe mai come.

      Stanco delle sue fatiche di romanziere, Farnese aveva pensato di riposarsi scrivendo tre ampii saggi intorno all'opera di tre pittori veneziani, che egli singolarmente prediligeva, Giorgione, Paolo Veronese e Carpaccio. Nella primavera del 1891, mentre correva l'Italia il suo nuovo libro, Cieli stranieri, libro d'impressioni dei suoi viaggi in Spagna, in Irlanda, in Olanda, in Fiandra, in Palestina ed in Oriente, egli rimase quattro mesi a Venezia, in un appartamento originalissimo ch'egli aveva affittato in quel curioso palazzetto Dario sul Canal Grande, che pencola un po' da un lato, e che si trova quasi prospiciente alla misteriosa casa di Desdemona. In quei soavi mesi di adorabile primavera veneziana, levato a primo mattino, Farnese sbrigava qualche articolo e qualche cronaca che, non ostante il suo riposo, doveva dare ai giornali ed alle riviste. Passava la mattina e metà del pomeriggio a percorrere i luoghi dove erano quadri dei suoi tre pittori, l'Accademia Reale di Belle arti, le chiese più lontane, S. Sebastiano, i Frari, Santi Giovanni e Paolo, — San Zanipolo, come abbreviano i veneziani — San Giovanni in Bragora, la Madonna dell'Orto. Verso il mezzogiorno, dopo una breve colazione al Caffè Quadri o al Florian, ritornava al lavoro e guardava, frugava, raffrontava, prendeva note, fino al tramonto quando, salito in gondola, amava goderselo su lo smisurato specchio della laguna o si faceva scivolare lungo il Canalazzo per vedere luccicare all'oro del tramonto i bei marmi orientali del palazzetto Dario dove abitava, o la facciata diamantata della Cà d'Oro, o per vedere tingersi ancòra di rosa le marmoree facciate del palazzo Contarini dalle Figure o del palazzo Foscari. Pranzava quasi sempre con qualche amico in un caffè sul mare, rientrava presto e prima di coricarsi leggeva, sbrigava la sua corrispondenza, ordinava le moltissime note raccolte nella laboriosa giornata. Poi dormiva d'un quieto sonno quasi infantile senza sogni e senza incubi affannosi. Gli era quasi ogni giorno compagno in quelle esplorazioni artistiche, Leonardo Loredano, bell'uomo di trentacinque anni, scrittore rinomato, amico fedele, gentiluomo perfetto appartenente ad una delle più nobili famiglie veneziane. Loredano aveva scritto romanzi e commedie che avevan dato molta voga al suo bel nome: — romanzi che erano quadri originali, grandi affreschi di quella vita cosmopolita così ardente oggigiorno e così vibrante, ch'egli viveva continuamente; commedie che eran fini esercitazioni di casistica sentimentale, opere delicate di un Marivaux del secolo decimonono, un Marivaux che bevesse l'extra-dry, fumasse i londres e leggesse la Vie Parisienne su la terrazza marina di un caravanserraglio cosmopolita di Cannes o di San Remo. Loredano era una delle figure più eminenti di Venezia: appena trentacinquenne, era già stato per due anni e con molto onore sindaco della sua divina città: gli avevano offerto la candidatura politica, ma egli aveva preferito tornare ai suoi calmi lavori letterari, riprendere i suoi incessanti viaggi a traverso il mondo. In quella primavera la sua sosta a Venezia si prolungava per restare con Farnese ch'egli amava molto. Qualche sera lo tratteneva a pranzare con lui in casa sua, e fu ad uno di quei pranzi che Farnese conobbe la sorella di Loredano, Beatrice, una snella figura di donna, con due occhi neri, dolci e sognatori, un colorito pallido che aumentava la sensazione di aristocrazia emanata da tutta la sua ammaliante persona. Farnese era stato preso a poco a poco da quel fascino, ed il poeta, che sonnecchiava in lui sotto il giornalista ardente ed il romanziere crudele, si ridestava in quelle notti lunari, quando i tre amici restavano su la terrazza tessendo sogni, allo sciacquìo sonnolento dell'acqua nel canale sottostante. I suoi lavori su Giorgione, Veronese e Carpaccio eran finiti da tempo e Farnese, nel giugno, non accennava ancora ad andar via. Una sera egli seppe che Loredano era improvvisamente partito per due giorni alla volta di Milano. L'innamorato si era subito diretto alla casa dell'assente, aveva chiesto della contessina Beatrice, rimastavi sola con la governante inglese e, contro ogni probabilità, egli era stato ricevuto in un salone sul Canalazzo, salone che l'unica lampada coperta da un paralume rosa lasciava in misteriosa penombra. Beatrice, tutta bianca, era seduta presso la finestra ed un raggio di luna l'inargentava. Il poeta in Farnese aveva trionfato. Ed egli, lo scettico, il misogino, il professional Woman's hater, l'odiatore professionale delle donne, disse d'un tratto tutto quel che sentiva, il bisogno da cui era commossa


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