Il Miraggio. Lucio d'Ambra

Il Miraggio - Lucio d'Ambra


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in quella sua spossante vita di lotta e di lavoro. Era stato lirico, lui, solito di essere ironico; ma l'ironia aveva subito ripreso il sopravvento; e, mentre la donna rispondeva commossa e propizia all'offerta dell'innamorato, quel raggio di luna, quella veste bianca, quella giovinetta tremante, quella penombra, l'eco dello sciacquìo di quell'acqua nel canale sottostante, le grida lontane dei gondolieri, l'avevano costretto ad una grande risata, mentre diceva alla donna, già col cappello ed il bastone in mano: — «Noi facciamo il melodramma ed io fuggo. Vi lascio su queste buone parole». — Poi, l'innamorato avendo suggerito di tener per buone quelle promesse, egli aveva aggiunto: — «Per tutto il resto m'intenderò con vostro fratello». Ed era andato via, ridendo di sè stesso. Loredano, al ritorno, aveva accolto con gioia e con bonomia quelle recentissime notizie insperate. L'innamorato era partito subito dopo. Tornato in ottobre a Venezia, lo scrittore ne ripartiva, poche ore più tardi, avendo al suo braccio la signora Beatrice Farnese. Loredano contemporaneamente prendeva l'express per Londra, felice di poter ricominciare la sua vertiginosa esistenza nella società di Cosmopoli.

      La fortuna ed il nome di sua moglie s'erano aggiunti per Farnese alla propria fortuna ed al vanto del proprio nome nel sospingerlo in un mondo di eleganze e di raffinatezze che non era il suo. Fino ad allora egli aveva vissuto in un mondo speciale ed originale di costumi e di bisogni, un mondo di scrittori, di giornalisti, di artisti, di attrici e di cavallerizze. Egli aveva amato le falsità delle quinte, i cattivi sentori del palcoscenico; le parrucche incipriate delle cavallerizze e delle clownesses lo avevano affascinato, ed all'uscire dalle austere sedute di lavoro o dalle serene discussioni con gli uomini più eminenti, lo scrittore aveva sempre veduto la vita sotto una cipria rosea, in uno sfolgorio di lumi, in un succedersi repentino di desiderj e di ebbrezze. Raramente egli aveva frequentato quel che oggi giorno chiamano il gran mondo, quasi i pettegolezzi e le ciancie di cinquanta saloni potessero raccogliere gli innumerevoli brividi elettrici della vita modernissima. In quei saloni egli aveva fatto rapide comparse quando qualche successo metteva di moda fra le belle duchesse il suo nome battagliero. Se ne era però subito allontanato, a causa di quelli uomini eleganti che volevano far sentir troppo al letterato la loro supremazia, e che anche nelle cortesie svelavano quella protezione che si ha verso un intruso compatito e sopportato perchè non se ne può fare a meno. Ma sua moglie nei primi anni di matrimonio aveva sùbito voluto godere i fascini della vita mondana, e tutti i saloni più esclusivisti di Roma si erano aperti per lei. Farnese era stato accolto questa volta, dagli uomini, come un buon compagno, — perchè vedevano in sua moglie una caccia probabile; non gli parlavano più quasi disdegnosamente di letteratura, ma lo intrattenevano intorno alle maggiori probabilità di riuscita di un cavallo a uno steeple-chase qualunque, intorno all'ultima partita intavolata al Circolo, o al miglior paio di scarpe per il lawn-tennis.

      Farnese si rifaceva di quelle sere di costipazione intellettuale — come egli diceva ridendo alla moglie — con ottime mattinate di lavoro incessante e fecondo. Lo scrittore non aveva perduto le sue ottime virtù di lavoratore metodico, di buon artigiano, com'egli soleva dire asserendo che bisognava essere un buon artigiano per essere un vero artista. Levato per tempo, lavorava sino a pomeriggio inoltrato; ma alle quattro la vita mondana lo riprendeva nel suo rumoroso vortice, sino al mattino seguente. A poco a poco, quelle eleganze e quelle squisitezze avevano affascinato in lui il borghese rimasto sotto la maschera dello scrittore scettico e la corazza dell'uomo rotto alla vita. In breve, egli sentì l'ossessione di quelle eleganze, non seppe più farne a meno, e qualche volta quasi avrebbe preferito al suo bel nome di autore celebre un titolo qualunque, l'onore solenne di duecentomila lire perdute in una notte di baccarat, il fascino irresistibile d'essere stato vincitore di un derby. Ma erano passeggeri e brevi momenti di debolezza: una seduta di lavoro lo liberava da tutte quelle elegantissime ubbìe.

      L'ironista risorgeva in lui. Venne allora la terza maniera di Farnese, che fu quella che ebbe più successo di critica e di vendita. La sua vita mondana a Roma, a Cannes, a Montecarlo o ad Aix-les-Bains, lo indusse a riprodurre quella futile esistenza noncurante e nella serietà medesima con cui il romanziere descriveva le eleganze più deliziose e le etichette più infrangibili, si scandalizzava per la minima scorrettezza, si entusiasmava a freddo per una marsina di taglio inappuntabile o per l'impassibilità di un giocatore elegante al tavolo verde, era un feroce fondo d'ironia, che sfuggiva agli interessati ed ai colpiti, e divertiva tutti gli altri. Quei primi due romanzi della sua terza maniera, Catene d'Oro e Sirene furono sui tabourets di tutte le principesse, nei gabinetti da fumo di tutti gli elegantissimi. Intanto altre sue commedie trionfavano: Una parabola, Flavia, I tramonti. Pubblicò anche sul giornale di Torrero, un piccolo capolavoro di satira una serie di note intitolata Giornale di uno snob, dove si risolvevano con la più esilarante compunzione questi ardui problemi: se fossero migliori le cravatte di Boivin o di Kent, quale ne fosse il nodo più acconcio, quale il più inglese taglio per le giacchette; e sopra tutto una Teoria dello smoking, rimasta indimenticabile, dove dieci uomini alla moda discutevano quattro ore se fosse lecito o no indossare lo smoking per teatro nelle sere d'inverno.

      Nel frattempo, egli aveva avuto due bimbi, uno maschio, Luca, che presentemente aveva circa sei anni, ed una femmina di un anno minore, Anna Maria. La moglie si era stancata della vita mondana, si era tutta consacrata ai suoi bambini ed al marito e questi aveva continuato, ma per poco tempo ancóra a correr solo i saloni, le sale d'armi, i circoli e gli alberghi internazionali, poichè come un articolo di Claudio Sanna, l'aveva lanciato nella bolgia letteraria, un altro articolo, anche a firma di Claudio Sanna, lo salvò da una rovina verso cui egli precipitava nell'incoscienza della sua nuova ebrietà. In quell'articolo severo il vecchio maestro avvertiva Farnese delle cattive tendenze che egli lasciava prendere alla sua opera, lo metteva in guardia contro le sorprese dei successi troppo repentini; gli consigliava e augurava un sano periodo di lavoro ed una nuova opera fortissima che potesse accoppiarsi a quell'Aurora, rimasta fino allora il suo capolavoro.

      Questo libro venne, frutto di un anno di raccoglimento e spoglio di mondanità, e s'intitolò I merletti. Erano i merletti posti dalle belle dame su le ferite sanguinolenti e turpi, l'inganno del ricamo, la maschera di trina messa su la vergogna e sul peccato, l'eleganza che giustifica, la massoneria morale dell'alta società: libro fecondo ed inquieto, vera opera della maturità dell'artista. Pubblicati prima su la Nuova Antologia e poi in volume, I merletti ebbero un successo nel quale nè Farnese nè alcun altro avrebbe mai potuto sperare. In una con tutte le sue virtù di narratore facile, elegante e drammatico, con quelle delicatezze che pure solleticavano il gusto di qualcuno, la sua spietata analisi psicologica, Farnese era in quel romanzo filosofo e moralista; l'opera assurgeva a commento di un'idea, una morale vi trionfava oramai.

      Il romanziere aveva scritto questo romanzo in una villa presso Siena, tra le tenerezze di sua moglie e le primavere gioconde dei suoi bambini. Qualche raro amico rompeva per pochi giorni la monotonia di quell'eremitaggio affettuoso e pensoso: Farnese serbava di quell'anno un ricordo profumato, come del periodo più felice e più squisito della sua vita. L'amore di Beatrice l'aveva sostenuto in questa opera di maturità, spronandolo nelle ore di sconforto e di sfiducia, quando pare che tutto crolli intorno all'artista in una notte densa e che il pensiero vacilli; confortandolo nelle ore di tristezza, distraendolo quando la sera, seduto per terra, egli chinava la fronte stanca sul grembo di lei, al lume roseo della lampada, mentre dalle stanze contigue giungevano i gridi spensierati del piccolo Luca e della fragile e bionda Anna Maria. Ella era stata la guida e la mèta, lo sprone e il riposo, collaboratrice e compagna, amante ed amata.

      Giuliano Farnese aveva allora trentacinque anni. Finito il romanzo I merletti, mentre questo correva trionfalmente l'Europa nel testo autentico ed in quattro traduzioni, lo scrittore condusse la piccola famiglia al mare, a San Remo, dove egli aveva una villa e dove Loredano li raggiunse da Vichy; Farnese vi si riposò per due mesi senza toccare la penna. Al loro ritorno in Roma, dopo un'assenza di più di un anno, Farnese si era dedicato a una nuova commedia: La chimera. Ultimatala nel febbraio, aveva ricevuto un bigliettino da Savarese, direttore del Teatro Nazionale, che gliela domandava a ottime condizioni. Egli aveva volentieri acconsentito, stabilendo col Savarese un convegno. Questi si era ben guardato dal mancarvi e si era presentato nell'appartamento che Farnese abitava in un villino del Macao, (accompagnato da Claudina Rosiers che il commediografo non conosceva), avendo già nella tasca del soprabito il contratto


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