Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio
sorvegliava ogni cosa, alzava i coperchi per vedere se le vivande bollivano, assaggiava il brodo, accomodava la legna sul fuoco, e le brace intorno ai vari recipienti, assistita da Bortolo il giovane domestico, un generico di casa che faceva un po' di tutto, mentre la Betta madre di lui, e vecchia serva della famiglia, apparecchiava la tavola.
Tiziano l'unico figlio dei padroni si scottava le gambe davanti la fiamma e attendeva silenzioso l'ora del desinare, mentre Fido il cane da caccia russava a suoi piedi. Gli apparecchi promettevano una lieta serata, tuttavia un'aria malinconica dominava quella famiglia, tutti se ne stavano in silenzio, e ciascheduno aveva un pensiero che non osava manifestare. L'anno antecedente, nello stesso giorno di Natale c'era davanti a quel fuoco anche un buon vecchio, il quale essendo partito per l'altro mondo lasciava un vuoto doloroso. Il povero nonno Taddeo nel corso dell'estate era morto di vecchiaia, e appunto perchè aveva vissuto lungamente nessuno credeva di perderlo. Piccolo possidente, e agente principale d'una ricca famiglia che faceva il commercio del legname a Venezia, Taddeo nella sua gioventù era stato alla dominante a far visita ai padroni, aveva veduto l'antica e gloriosa repubblica di San Marco, ed era rimasto colpito dal lusso dei palazzi, dalla maestà delle chiese, dalla profusione dei marmi orientali, dall'oro dei mosaici, dallo splendore delle pompe, dalla magnificenza delle feste. E raccontava sovente i suoi tempi, compiacendosi di ritornare colla memoria nell'età giovanile, rammentando specialmente con piacere la piazza di San Marco colla fiera dell'Ascensione, ove si trovavano esposti in bell'ordine tutti i prodotti del mondo, che egli non finiva mai di descrivere, colla stessa prolissità che raccontava l'arrivo del papa Pio VI.
Quest'ultimo avvenimento che accoppiava la maestà della religione alle pompe del governo, aveva esaltato la sua immaginazione a tal segno, che nella più tarda età conservava ancora vivaci le impressioni ricevute.
Egli descriveva una loggia tutta oro e damaschi in campo San Giovanni e Paolo, nella quale apparve il sommo pontefice Pio VI, accompagnato dal patriarca Federigo Maria Giovanelli e dal Doge Paolo Renier, seguiti dai cardinali, dai Vescovi, e dal Senato. Il popolo affollato stava silenzioso ed in ginocchio sulla piazza, e si accalcava alle finestre e sui tetti delle case. Alzate le mani al cielo il papa benediva i veneziani fra vortici d'incenso mandati dai turribuli, mentre l'organo della chiesa faceva echeggiare i suoi concenti, tutte le campane della città suonavano a gloria, e i cannoni tuonavano da lontano dalle navi e dal porto.
Quelle feste solenni, grandiose, i monumenti della città singolare, tutto quello che aveva udito narrare delle glorie di Venezia, delle sue sterminate ricchezze, della sua potenza esterna ed interna, della severità delle leggi, gli facevano considerare la repubblica di San Marco come il tipo più perfetto di governo che si potesse desiderare, e trovava pienamente giustificata la devozione figliale che ne mostravano i cadorini. E invece quando gli parlavano del governo Austriaco alzava gli occhi al cielo e crollava le spalle in segno di disprezzo.
Infatti dopo le guerre napoleoniche egli aveva veduto i tedeschi entrare in Cadore laceri e pidocchiosi, e deplorava vivamente che le vicissitudini delle armi avessero condannato il paese a subire quel giogo umiliante ed assurdo. Ed ogni inverno nel suo cantuccio prediletto del focolare egli raccontava per la centesima volta quelle vecchie storie aggiungendovi delle riflessioni politiche e morali, che suo figlio Antonio approvava, mentre Tiziano e Bortolo dormivano profondamente, perchè la morale dopo il pranzo e intorno al camino è sempre riuscita un potente narcotico per la gioventù d'ogni paese.
Però le massime dei nonni, anche poco ascoltate, s'infiltrano nel sangue, e si trasmettono alle future generazioni, come un legittimo retaggio di famiglia, e il vecchio Taddeo conchiudeva tutte le sue narrazioni ripetendo le glorie di San Marco, e sostenendo che il governo Austriaco era una vergogna grandissima e un danno perenne per l'Italia. E con tali sentimenti visse ottantacinque anni e sette mesi, e morì fedele al suo Dio ed alla sua patria, circondato dalla stima e dalla venerazione di quanti lo conobbero.
Sior Antonio, degno figlio di lui, era un vero tipo cadorino del vecchio stampo. Giubba di fustagno giallo a coda mozza, calzoni corti della stessa qualità, scarpe grosse da montanaro, cappello a cilindro a pelo lungo, un po' più largo alla sommità che alla base, senza cravatta, col volto raso completamente, e un sorrisetto sul labbro fra il bonario ed il furbo. Erede del modesto censo e delle massime paterne, agente generale degli stessi padroni, probo ed onesto a tutta prova, ma un po' taccagno coi vicini coi quali era in continue brighe per dissensi interminabili di confini. In quei monti, dove la piccola proprietà è frazionata all'infinito, la terra coltivata si limita in spazii angusti, ogni palmo di terreno è prezioso, e suscita questioni interminabili.
Col lavoro e col risparmio, Sior Antonio, secondato da sua moglie Maddalena, sobria ed economa padrona di casa, ha potuto dare una completa educazione all'unico figlio Tiziano, scopo onorato di tutti i loro sforzi, di tutte le privazioni, di tutte le fatiche d'una laboriosa esistenza.
Tiziano era dunque cresciuto con altri destini. Frequentò le scuole locali, scorrazzando sui monti il resto della giornata, coi suoi compagni, o con Bortolo il quale era nato in casa dal matrimonio d'un vecchio e fedel servitore colla Betta, la quale rimasta vedova, allevava il figlio colle massime dei genitori, perchè potesse servire fedelmente i padroni di suo padre.
I due ragazzi passarono insieme l'infanzia, crebbero come fratelli, e quando Tiziano venne mandato a studiare il latino nel seminario Gregoriano di Belluno, Bortolo fu iniziato ai vari servizi di stalla e cucina, con l'aggiunta di cento altri mestieri.
Gli studi classici, i libri letti alla macchia, la società di compagni svegli ed intelligenti affinarono in Tiziano i sentimenti di devozione all'Italia, coi quali era stato allevato in famiglia.
Michele Malacchini suo compatriotta, condiscepolo fino dalle scuole elementari, e suo collega in seminario, divenne il più intimo dei suoi amici, e l'indivisibile compagno della sua vita. Questo giovane rimasto orfano nell'infanzia venne raccolto in casa da Sior Iseppo, un vecchio zio bisbetico divenuto suo tutore, che considerava il nipote come una tassa forzosa impostagli dalla natura. Il nipote considerava lo zio come un tiranno, e soleva chiamarlo l'orso domestico, perchè quando usciva dal covo della sua stanza, perseguitava il giovanetto con continui grugniti, che volevano riuscire sermoni, ma che non raggiungevano l'intento.
Nelle vacanze autunnali, Tiziano e Michele correvano i boschi e le valli collo schioppo ad armacollo, accompagnati dai loro cani, ed inseguivano le lepri, i francolini, i cedroni, i coturni, e più tardi i daini ed i camosci sulle più erte rupi delle montagne.
Terminati gli studi del Seminario i due amici passarono insieme all'Università di Padova, prendendo alloggio nella stessa casa in due camere contigue. Tiziano studiava matematica per diventare ingegnere, Michele diceva di studiar legge, ma andava a scuola di rado, col pretesto che l'aria mefitica delle aule chiuse gli opprimeva il respiro, e che egli aveva bisogno d'aria, di luce, di movimento, e non potendo andare alla caccia dei selvatici per le strade di Padova, si divertiva ad inseguire le sartine e le crestaie, e slanciava dichiarazioni amorose a tutte le donne, dimenticandole il giorno dopo.
La vita universitaria aveva però completata la loro educazione politica, e i giovani sempre più insofferenti del giogo austriaco, procuravano di apparecchiarsi ad una riscossa che potesse liberare il paese dal dominio straniero. E si raccoglievano in segreto fra loro, comunicandosi le idee, leggendo avidamente gli scritti di Mazzini, Balbo, Gioberti, D'Azeglio. Recitavano degli squarci delle tragedie di Niccolini, imparavano a memoria i versi di Giusti e Berchet, declamavano focosamente i più caldi capitoli dei romanzi di Guerrazzi, e apparecchiavano congiure e piani di rivoluzione, tenendo corrispondenze coi capi delle sêtte all'estero, e cogli affiliati delle società segrete italiane.
All'autunno ritornando a Pieve di Cadore, animati da sentimenti patriottici, si raccoglievano nel roccolo di Sant'Alipio, ove comunicavano le speranze d'Italia a Isidoro Lorenzi che era il capo dei liberali cadorini, e il più fervente promotore della liberazione d'Italia sulle Alpi; il quale quantunque avesse oltrepassata la quarantina, conservava tutto il vigore della gioventù, e in quell'angolo romito delle montagne, che sfuggiva ad ogni sorveglianza, apparecchiava alacremente gli animi dei suoi compatriotti alla ferma volontà di emanciparsi dagli stranieri.
Il roccolo di Sant'Alipio è una piccola proprietà destinata specialmente