Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio

Il roccolo di Sant'Alipio - Caccianiga Antonio


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trovare opportuni, e lo pregò di volerlo proteggere e consigliare, in questa grave e dolorosa contingenza.

      Il consigliere imperiale ascoltò impassibile ogni cosa, senza che un minimo movimento del volto annunziasse le sue impressioni, e quando l'altro ebbe finito egli incominciò col deplorare la insania di coloro che senza armi nè aiuti si mettevano in testa di voler obbligar l'Austria a cedere i suoi dominii italiani, che erano considerati come frontiera indispensabile alla sicurezza della Germania. E fabbricando un edifizio di argomenti perentorii su questa base, veniva alla conclusione finale che l'Italia deve rassegnarsi in eterno ad essere governata dai tedeschi, e che era una vera pazzia lo scaldarsi la testa con idee sovversive che non potevano condurre che alla galera ed alla forca. È facile immaginare come riuscissero confortanti all'animo afflitto del povero padre, quegli argomenti così lampanti delle idee del magistrato, che dimostravano con tanta evidenza la protezione che si poteva sperare da lui, tuttavia l'affetto paterno è così grande che mentre l'istinto naturale lo spingeva a prenderlo per il collo e a gettarlo dalla finestra, il desiderio di giovare a suo figlio lo tenne inchiodato sulla seggiola e lo forzò a mostrarsi pacifico e rassegnato, giustificando come meglio poteva quella strana monomania di certi giovani esaltati, che si permettevano di pensare che l'Italia potesse avere il diritto di comandare in casa propria, e di non volere stranieri!.... Idee stravaganti ed assurde, certamente, ma che bisognava condonare alla gioventù senza esperienza, esaltata dagli atti inconsulti del nuovo pontefice Pio IX, il quale aveva commesse le imprudenze di benedire l'Italia, di richiamare in patria gli esuli e di liberare i condannati al carcere che il suo predecessore aveva trovati colpevoli di amare la loro madre.... la patria.... l'Italia!

      Il consigliere imperiale alzava le spalle in segno di pietà ed osservava che la vera patria dei veneti e dei lombardi non era evidentemente che l'impero d'Austria, riconosciuto da tutte le potenze che riconoscevano parimenti il Napoletano, le Romagne, la Toscana, il Piemonte, ma nessuno conosceva l'Italia; un nome antico, che aveva un valore storico, ma che in politica non contava che come uno zero!...

      Tali osservazioni punsero acutamente la probità naturale del buon cadorino, nato e cresciuto col senso retto del giusto e del vero indipendente dalle assurdità dei trattati, e non potè a meno di soggiungere:

      — Mi pare che sia il paese e non il governo che fa la patria.... il Cadore è in Italia, e noi siamo italiani, malgrado il governo austriaco, i piemontesi, i toscani, i romagnoli, e i napoletani, sono tutti italiani al pari di noi!... nessuno può distruggere quello che ha fatto la natura!...

      — Queste sono le idee sovversive, coltivate dalla vostra famiglia, e per le quali vostro figlio è in prigione. Ecco il frutto delle aspirazioni illegali, che espongono gl'incauti ai giusti rigori del governo, obbligato di tutelare i propri diritti e l'ordine pubblico. Il governo austriaco non vorrà mai cedere davanti le idee rivoltose di pochi agitatori....

      — Veramente il fermento generale dimostrerebbe che gli agitatori non sono pochi, rispose sior Antonio, il paese è assai malcontento.... il governo non deve spingere l'irritazione agli eccessi con atti di rigore.... si ricordi signor consigliere che in Cadore c'è della gente risoluta, che non ha paura di nessuno, e non è prudente turbare la pace delle famiglie con violenze inesplicabili....

      Il consigliere imperiale sapeva benissimo che i Cadorini erano tutti liberali e nemici del governo, s'avvide d'essere un po' trascorso coi discorsi, temette di compromettersi col paese, e come impiegato in quiescenza non voleva incorrere in pericoli e in disgrazie da nessuna parte. «Non si sa mai!» egli pensava fra sè, anche una passeggiera rivolta potrebbe costar cara ai troppo zelanti difensori dell'Austria la quale sarebbe sicura di reprimere ogni insurrezione, ma non potrebbe salvare le prime vittime del furore popolare. Era dunque miglior partito non scoprirsi intieramente, e cambiar tuono per vivere in pace, e senza pensieri, e modificando a poco a poco le sue espressioni, egli procurò di persuadere sior Antonio che parlava per vero interesse del paese, perchè giudicava che le imprudenze erano sempre dannose. Ciascheduno poteva pensare a suo modo senza esporsi a pagare per tutti. Del resto egli era animato dalle migliori intenzioni, sempre disposto a giovare al suo paese, e ai suoi cari compatriotti, e finì la sua seconda cicalata, in contraddizione colla prima, offrendo i suoi buoni uffici presso qualche persona autorevole per vedere se fosse possibile di mitigare la sorte del prigioniero, e per giovargli davanti le autorità superiori.

      Dopo d'aver discusso sul modo di agire, venne deciso di aspettare una risposta alla lettera scritta a Venezia, per appigliarsi ad un partito:

      — E intanto siate prudenti!... raccomandava il consigliere dal quale sior Antonio prendeva congedo, siate prudenti, che il paese stia tranquillo!... che ognuno attenda ai fatti suoi!... questo lo dico nel vostro interesse.... ve lo raccomando per l'interesse di vostro figlio!

      Costretto di aspettare i consigli dei padroni, sior Antonio riprese tristamente le sue occupazioni, ma quando si recò alla sega per visitare i lavori e dare degli ordini, trovò i segatini, i menadàs e i zatteri fortemente indignati per il caso avvenuto, come se il governo avesse colpito un loro figliuolo, e volevano ad ogni costo recarsi a Pieve per reclamare il prigioniero. I zatteri alzavano le loro scuri in atto minaccioso, i menadàs agitavano le stanghe armate dall'anghier a due punte, i segatini mostravano il coltello, e tutti gridavano: vendetta.

      Ci volle molta prudenza ed abilità per persuaderli che avrebbero aggravata la condizione di Tiziano con una dimostrazione tumultuosa che non poteva avere altro risultato che di fare nuove vittime, che conveniva aspettare un momento più opportuno per ottenere giustizia, e che per ora era necessario di astenersi da ogni atto imprudente ed intempestivo.

      Frattanto Bortolo era ritornato colla Nina portando le prime notizie del fuggitivo, che era giunto felicemente in Auronzo. Per via non avevano incontrate persone sospette. Stavano sempre attenti guardando da ogni parte se vedessero spuntare l'elmetto dei gendarmi o se qualcuno li seguiva, o veniva ad incontrarli.

      Prima di giungere in Auronzo si separarono, Michele volle entrare nel paese a piedi pei sentieri e i viottoli nascosti dietro le case mentre il suo compagno di viaggio riprendeva la strada di Pieve. Bortolo non sapeva altro, e tutto contento della sua impresa felicemente riuscita, fregava la Nina con due manate di paglia, e vedendola sfinita inzaccherata fino al ventre, e bagnata di sudore, procurava di consolarla con delle buone parole:

      — Povera Nina, le diceva, ti darò una buona porzione di avena e crusca, e sarai contenta, e potrai riposarti al caldo.... e quella brutta gente non avrà il gusto di chiapparlo il nostro amico.... noi lo abbiamo salvato. Avessimo potuto salvare anche il nostro padrone!... mah! povero Tiziano.... Povero Tiziano!...

      Fido accovacciato in un angolo della stalla stava ascoltando i discorsi del giovane, e avendo udito il nome del suo padrone assente, alzava gli occhi malinconici, e mandava un guaito doloroso.

      Michele aveva un amico in Auronzo, nella cui casa poteva starsene al sicuro, apparecchiando la sua fuga in modo da farla riuscire, mentre la polizia lo cercava da ogni parte, e ne mandava i contrassegni al confine.

      Da colà egli faceva avvertire segretamente Giacomo Croda del suo arrivo, e d'accordo con lui e con l'amico venne stabilito di cacciarsi nelle montagne del Tirolo e di attraversarle per recarsi nella Svizzera. Nel cuore dell'inverno l'impresa era assai faticosa, ma non impossibile per due intrepidi cacciatori di camosci, e specialmente colla guida di Giacomo il quale dall'osteria delle Alpi sul lago di Misurina conduceva i viaggiatori pedestri, tedeschi ed inglesi, sulle più eccelse cime dei monti, nei mesi estivi, e faceva anche il contrabbandiere in tutto il tempo dell'anno con inarrivabile destrezza.

      Quando il tempo si mise al sereno passarono l'Ansiei, e ben muniti di provvisioni s'inoltrarono per un sentiero appena praticabile dalle capre. Varcarono montagne che parevano inaccessibili, costeggiando i precipizii alle falde di eccelse rupi che alzavano a perpendicolo le creste nude, frastagliate ed aguzze, come gigantesche muraglie diroccate, veri baluardi naturali dei confini d'Italia.

      Attraversarono vallate boscose e profonde solitudini, ove non si udiva altro suono che il fragore dei torrenti, il sibilo del vento, e gli acuti stridi degli uccelli di rapina. Non traccia d'uomo in quei selvaggi deserti, ma una natura sublime che elevava lo spirito al di sopra della terra, e delle umane miserie. Rupi sopra rupi, accatastate, rotte dalle frane, frastagliate


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