Il roccolo di Sant'Alipio. Caccianiga Antonio

Il roccolo di Sant'Alipio - Caccianiga Antonio


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nuovi massi spaventosi che si dovevano superare quasi a perpendicolo, aggrappandosi colle mani ai magri virgulti che sporgevano dai crepacci. Ma quando avevano guadagnata la più eccelsa vetta della più alta montagna, e il loro sguardo dominava le cime sottoposte e l'immensa pianura che si stendeva fino ad una linea azzurra che indicava l'Adriatico, allora si credevano i padroni dell'universo, e non avevano più nulla a temere dalle tirannidi dei governi e dalle insidie degli uomini. Michele saliva sopra una roccia, faceva dei segni cabalistici in aria, e quando Giacomo Croda gli chiedeva delle spiegazioni, egli rispondeva:

      — Maledico i tiranni, scaglio anatemi a tutti coloro che pretendono dominare in casa degli altri contro il diritto di natura. Verrà un giorno nel quale saranno sepolti dalla giustizia popolare, come quelle pietre che credevano di stare al sole per lungo corso di secoli, e che ora sono sepolte dalle valanghe e stanno ai nostri piedi.

      Alla notte i due viandanti si riposavano nelle baite, capanne abbandonate dai pastori che all'inverno si ritirano nei villaggi o scendono alla pianura. Accendevano il fuoco con rami di abeti e di ginepri, cenavano tranquillamente intorno alla fiamma. Michele trovava eccellente ogni pasto, dichiarando che il pane nero delle carceri non avrebbe mai avuto l'onore di entrare nel suo stomaco. Poi accendevano le pipe, e ciarlavano fino alla comparsa del sonno. Allora si coricavano al suolo avvolti nelle loro coperte o sepolti sotto le foglie secche, se avevano la fortuna di trovarne in quei tugurî, e russavano fino al mattino.

      Talvolta però il freddo era così acuto che tagliava il viso, toglieva il respiro, gelava le estremità, diventava pericoloso. Ma il pensiero della libertà rianimava il coraggio di Michele, il quale piuttosto di vivere nell'aria cupa e mefitica d'una prigione, preferiva di morire intirizzito sulle Alpi.

      Talvolta potevano anche scendere in qualche villaggio, ed entrare in qualche capanna conosciuta da Giacomo, ove i contrabbandieri si davano la posta, e trovavano un rifugio sicuro. E colà poterono refocillarsi, dormire sopra un letto, e rinnovare le provvisioni. Vicino ai confini raddoppiarono le precauzioni e la vigilanza; e sovente nascosti dietro una roccia videro passare da lontano le guardie doganali che perlustravano i luoghi sospetti; ma uscirono sempre felicemente da ogni pericolo, e dopo molti giorni di marcie faticose attraverso le Alpi tirolesi, entrarono finalmente nel Cantone Ticino. Appena varcato il confine, Michele salutò con entusiasmo la Svizzera, e messosi in ginocchio volle baciare la terra della libertà.

      Dopo d'essersi riposati qualche giorno si divisero. Michele consegnò a Giacomo alcune lettere per lo zio, per Sior Antonio e per l'amico d'Auronzo, e partì pel Piemonte. L'altro, fatte le sue provviste di tabacco e sigari, si unì a dei colleghi che avevano gli stessi motivi di lui per evitare le strade maestre, e ritornò in Cadore, dove consegnò le lettere ricevute.

      Sior Antonio fu contento di sapere che Michele era giunto felicemente in paese libero, ma sentì doppiamente il dolore della prigionia di suo figlio, ed era grandemente meravigliato di non aver ancora ricevuto nessuna risposta da Venezia.

      Finalmente dopo lunga aspettativa giunse un messo mandato a posta dai padroni il quale giustificò il motivo del loro silenzio. Avevano ricevuto la sua lettera, ma era sfuggita per miracolo alla sorveglianza della sospettosa polizia, e non era prudente di mandare per la posta delle comunicazioni segrete, perchè tutte le corrispondenze sospette venivano aperte, e potevano compromettere molte persone.

      Sior Antonio corrugava la fronte e incrociava i sopracigli, poi coll'indice della destra toccandosi una dopo l'altra le dita della mano sinistra, aperta come un ventaglio, diceva:

      — Violato il domicilio domestico; violato il segreto delle lettere; punito l'amore di patria come un delitto; arrestati i galantuomini; obbligati a fuggire dal paese quelli che non vogliono andare in prigione. — E qui cambiando mano, e coll'indice della sinistra, toccando successivamente le dita della destra, continuava: — la coscrizione manda gli italiani in Ungheria, gli ungheresi in Boemia, i boemi in Austria, gli austriaci in Croazia, i croati in Italia! ogni popolo è mandato dall'imperatore a ribadire le catene dei suoi vicini, e tutti si lasciano condurre come tante bestie a compiere i voleri di un uomo a proprio danno. Il denaro dei contribuenti parte per Vienna ad impinguare le case tedesche; tutti i capi d'ufficio sono mandati dall'Austria; è proibito a chi soffre di lamentarsi, sotto pena della galera; vietate le armi per difendersi.... ed avendo esaurite le dieci dita nell'enumerazione delle piaghe principali della patria, sior Antonio alzava ambe le mani in aria, e battendo i piedi in terra, gridava: — Calpestati e vilipesi in casa nostra!.... disprezzati dagli stranieri! questa è la nostra condizione.... e gli italiani hanno la viltà di tollerarla!...

      Il messo correva a chiudere la finestra, e gli faceva cenno di tacere, di non commettere nuove imprudenze, ma quando sior Antonio aveva incrociati i sopracigli, non era facile calmarlo.

      Alfine dovette starsi zitto, e lasciare che anche l'altro parlasse.

      Costui gli disse che pur troppo i padroni non potevano nulla per suo figlio, che essi pure erano sospetti al governo, che andasse egli stesso a Venezia, e procurasse di farsi raccomandare da qualche autorità locale, che non c'era tempo da perdere, che lo aspettavano senza ritardo, e che giunto in casa loro sarebbe consigliato e diretto nell'interesse di Tiziano. Si decise subito per questo partito, e mentre che Maddalena gli apparecchiava la valigia, egli corse di nuovo dal Consigliere imperiale, il quale non potè esimersi di raccomandarlo ad un segretario di Tribunale, con una di quelle lettere insignificanti ed ambigue, che vogliono dire, a chi sa leggere fra le linee: «vi raccomando il portatore della presente, perchè non posso fare altrimenti. Tiratevi d'impiccio come potete, che ve ne sarò gratissimo, come d'un favore personale. E comandatemi liberamente, che io sarò sempre disposto di fare altrettanto per voi.»

      Sior Antonio, che non sapeva leggere fra le linee, e che credeva che un segretario del tribunale dovesse conoscere tutti i segreti necessari per mettere in libertà un carcerato, fu soddisfattissimo della missiva commendatizia, alla quale attribuiva la potenza d'infrangere i ceppi e i chiavistelli di tutte le prigioni di stato della monarchia. Ringraziò il Consigliere colle lagrime agli occhi, e gli promise la sua eterna riconoscenza.

      Di là passò al roccolo di Sant'Alipio, e chiese a Isidoro Lorenzi se potesse giovarlo egli pure, raccomandandolo a qualche amico di Venezia.

      — Ma senza dubbio, caro sior Antonio, figuratevi se non farò tutto il possibile per aiutarvi a liberare dagli artigli dell'aquilotto il povero nostro amico Tiziano. Sedetevi qui con Maria, e torno subito con una lettera, che vi potrà essere utilissima.

      Maria colmò di attenzioni sior Antonio, si mostrò profondamente addolorata della sventura toccata al compagno della sua infanzia, incaricò il povero padre di mille affettuose espressioni pel prigioniero, che essa sperava di vedere fra breve nella loro casetta, che, dopo la sua partenza e quella di Michele, le pareva muta e deserta. Egli doveva dire a Tiziano che si parlava tutto il giorno di lui, che il suo pensiero lo accompagnava di giorno e di notte, che il suo ritorno sarebbe una bella festa per tutti gli abitanti del roccolo.

      Isidoro ritornò colla lettera che portava il seguente indirizzo:

      «All'egregio Signor avvocato Daniele Manin, a San Luca, Ponte San Paternian, Venezia. S. P. M.»

      — Voi avrete udito a parlare dell'avvocato Manin.... — gli disse Isidoro, consegnandogli la lettera.

      — È la prima volta che sento questo nome, — gli rispose sior Antonio.

      — È un bravo avvocato, e un buon patriota, che potrà esservi utilissimo. Mi sorprende che non abbiate udito a parlare di lui a proposito della eterna questione della Strada Ferrata Ferdinandea, nella quale si è mostrato valente difensore degli interessi e del decoro del paese.

      — Quando lo dite voi, basta. Sarà l'avvocato di mio figlio, e spero che saprà difenderlo a dovere, in caso di bisogno.

      Dopo cordiali ringraziamenti, salutando amichevolmente, uscì dal roccolo, ma prima di rientrare in casa deliberò di fare una visita al signor Arcidiacono, d'implorare anche la sua assistenza, e di udire i suoi consigli.

      L'Arcidiacono lo ricevette nel suo studio colla consueta benignità, se lo fece sedere dirimpetto, gli fece portare un fiaschetto di vino di Conegliano, lo interrogò con interesse sulla


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