Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana. Giuseppe Rovani

Manfredo Palavicino, o, I Francesi e gli Sforzeschi: Storia Italiana - Giuseppe Rovani


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dura stretta, ricevuto un salvacondotto da Chaumont, che comandava le truppe francesi, se ne venne a Milano coi due figli Annibale ed Ermete e colla Ginevra che allora poteva avere otto anni, e qui fermò la sua dimora. Non avendo in quel tempo a far nulla, ed essendo i due suoi figli già oltre l'adolescenza, a stornare i duri pensieri ed a fuggir tempo, si diede all'educazione della sua Ginevra. E mostrando la fanciulla tanto ingegno quanto è fuori dell'ordine di una donna, gli die' maestri di lettere, di disegno, di musica. Urceo era stato il primo maestro della fanciulla sin da quando erano a Bologna; in Milano fu affidata alle cure di Giovanni Filoteo, dottissimo uomo e buon poeta. Il Luino le aveva insegnato i principj del disegno, e uno Scandiano Monteverde, maestro nel conservatorio di musica fondato da Lodovico il Moro, e che fu il primo di tutt'Europa, gli apprese il canto e il suono della lira, genere di strumento che allora era in grandissima voga, per esserne stato suonatore insigne il mirabile Leonardo.

      Recatosi poscia a Ferrara, dove aveva molti possedimenti, i soli con cui potesse mantenere il decoro principesco della famiglia, aveva ottenuto che Lodovico Ariosto contribuisse pure alla maggior educazione della figlia, la quale seppe rispondere così bene ai desiderj paterni che, non ancora uscita dell'adolescenza, destava la meraviglia in quanti ravvicinavano.

      Intorno a quel tempo ricuperò Bologna, ma, come sappiamo, nel 1512, spodestato ancora di quel dominio, e con minori speranze di ricuperarlo, di nuovo ritornò a Milano. Vi ritornò colla sola Ginevra, avendo i due figli Annibale ed Ermete seguito l'esercito francese.

      Nella fanciulla, in quel lasso di tempo, colle doti dell'ingegno s'era venuta sviluppando una bellezza di forme straordinaria, alla quale dava assai prezzo una leggiera tinta di quella severa maestà paterna, che ai giovani che la vedevano comandava l'ammirazione, senza far tacere l'amore. Non è a dire con quanta compiacenza lo scaduto signore di Bologna vedesse quella sua figlia, come ringraziasse la fortuna d'averla fatta nascere nella sua casa. Nè già l'amor paterno soltanto generava quella compiacenza, ma un'altra causa assai meno tenera e molto più forte, la grandezza della casa, il desiderio di ricuperare i suoi Stati, Qual signore di Bologna, egli aveva sperato, facendone fondamento sui pregi della figlia, ch'ella potesse venir chiesta in isposa da qualche principe regnante o d'Italia, o di Francia, coll'ajuto dei quali farsi forte, e riavere i propri dominj; quella sua figlia dunque era l'unico oggetto delle sue cure e dell'amor suo; ma in quest'amore v'era qualche cosa di geloso, di tormentoso, di pesante. In tanti anni di dimora in Milano non le avea mai concesso s'abbandonasse in dimestichezza colle fanciulle di altre nobili famiglie; neppure una volta lasciò ch'ella uscisse a piedi di palazzo; temeva quasi che l'atmosfera delle contrade, dove si confondevano le esalazioni plebee, potessero mai recare qualche offesa alla nobiltà della figlia.

      Quando Milano era sotto il dominio francese, non aveva mai frequentato che il palazzo e la conversazione del governatore, dove la Ginevra fu più d'una volta l'oggetto dell'ammirazione generale, e quando ritornarono gli Sforza, qualche volta si recava alle feste del duca. Nella propria casa non concedeva accesso che alle più cospicue e antiche famiglie di Milano, con un riserbo però, con un cerimoniale, con un'etichetta, che poteva anche promovere la nausea. Qual signore, benchè scaduto, d'un ampio stato in Italia, egli pensava che in tutta Milano non v'era alcuno che potesse stargli a paro, nè di nulla era più curante che di far spiccare e rispettare codesto primato. Il titolo di magnifico signore, era il solo che lo mettesse di lieto umore, che gli facesse distender le rughe della calva sua fronte. Di null'altro era più tenero che dei propri titoli, di nessun'altra cosa prendeva passatempo che della lettura della storia del proprio casato e della sua Bologna. Dal momento che gli era sfuggito di mano il potere reale, cominciò a vagheggiare con un amore ardente, geloso, permaloso, le immaginarie prerogative della nobiltà. Molte volte avveniva, che trovandosi a far qualche parola con taluno dei signori milanesi che non appartenessero al più squisito patriziato, una loro parola non abbastanza misurata, un atto, un gesto troppo confidenziale, al quale per inavvertenza si lasciassero andare, una stretta di mano datagli senza pensar molto alla diversa inquartatura dello stemma, qualche cosa insomma che gli potesse far sospettare avesse voluto quel tale o porsi al livello di lui, o abbassar lui al livello suo, bastava di tratto a mettergli i dispetti nel sangue, a farlo di improvviso diventar cupo, accigliato, inquietissimo.

      E coloro che avessero voluto spiegare quei repentini mali umori, potevano benissimo darne causa o al mal di capo, o al dolor di denti, o ai reumatismi, ma non mai a quel che era veramente, perchè quel signore talvolta faceva poi anche l'affabile e il liberale, nè tutti erano così acuti da tener nota delle occasioni in cui lo faceva, nè sapevano accorgersi che anche allorquando dava cortesi parole a chi era da meno di lui, procurava tuttavia, nel mezzo della folla, di tenersi alto di tutta la testa appoggiato ai trampoli del suo grado.

      Chi tiene fra le mani la verga del comando ed è ancor ricco di potenza fisica, vedendo in che e in quanto avvantaggia gli altri, il concetto che può aver di sè stesso non trascende giammai i limiti, perchè la realtà gliene dà la giusta misura. Ma chi, invece, non ha altro al mondo che quel fluido imponderabile, il quale vien detto nobiltà, non potendo sapere quel ch'ella sia precisamente, ajutato dall'imaginazione le attacca quel valore che più gli piace, e col superbo fantasticare va tanto innanzi che gli riescono angusti i più estesi confini.

      Chi scrive conosce un tale della costola d'Adamo, uomo del resto di molto ingegno e di miglior coltura, e, come parve a taluno, anche di assai buon senso, il quale tiene per fermo che i patrizi sieno, nella grande catena, d'un bel tratto più presso a Dio che non il resto del genere umano; assunto che si affanna a dimostrare con una convinzione veramente prodigiosa, e, quel che più fa maraviglia, senza che il vino gli abbia dato alla testa.

      Ora, tornando al Bentivoglio, era verissimo quanto di lui aveva saputo il Morone da quel tal Marsiglio di Lodi. Verissimo che essendogli giunto a notizia l'arrivo del Baglione (il quale, a gratificarsi i Francesi, avea seco condotto cinquecento lance per aggregarle all'esercito del re, e intanto aveva posto gli alloggiamenti a Lodi) tosto erasi colà recato a visitarlo.

      Sebbene egli avesse trovato il Baglione invecchiato ed orrido da far paura, tuttavia avea subito tentato riannodare il filo che, tre anni prima, era stato mal suo grado spezzato. Come il lettore ben sa, era il Baglione tra' più facoltosi e potenti signori della Romagna, e per l'ajuto di Francia, era possibile avesse a salire più alto ancora, e il Bentivoglio, per quanto cogli ambiziosi desiderj girasse lo sguardo fra tutte le teste coronate d'Italia e fuori, non avea però mai trovato un personaggio migliore del Baglione con cui collocare la propria figlia, e collocarla in modo, che potesse esser d'ajuto a lui medesimo. Però, quando Giampaolo era stato improvvisamente assalito da quei mali che in tutti gl'Italiani aveva indotto la speranza, anzi la certezza, fosse per morirne in breve, egli si tenne perduto, vedendosi tolto un così valido mezzo a ricostruire lo scrollato edifizio; per questo è facile immaginarsi il contento di lui, allorchè, fatte quattro parole col Baglione, tosto comprese esser colui ancor pronto a sposare la Ginevra, benchè gli avesse posto una condizione.

      —Aspettate si spieghi la fortuna di Francia, aveagli detto il signore di Perugia, aspettate che s'abbia a conoscere in quanti piedi d'acqua siamo noi, e allora la discorreremo. Domani o dopo si verrà ad una decisiva giornata. Domani o dopo quel che avrà a stabilirsi fra noi sarà stabilito. Del resto, io sto qui e non mi muovo, le mie lancie son condotte da Orazio, e se venni qua in persona io stesso, è perchè ho bisogno di tener quattro parole col re. Sto attendendo anch'io con impazienza quel che sarà per uscire da tutto ciò, ma spero bene. Ho una gran sete, caro mio, e mi conviene patire l'arsura finchè non vegga recisi gli unghioni di leone da questo ragazzo di re. Tengo nella stía della mia Perugia ad ingrassare, tre capi di pollame ai quali tireremo il collo quandochesia; un protonotario che ci ha tradito, un vescovino che s'impacciò di battaglie, un cardinale che si balocca colle daghe, le misericordie e gli schioppetti. Se dunque i Francesi si comporteranno bene, il papa farà cantare il miserere per tutt'e tre, e non avrò più un timore al mondo di lui. Allora venite qui, e senz'attender altro, qualche cosa si farà. La vostra figlia mi piace e la sento lodata da tutti, e, in quanto a me, sebbene allorchè spira tramontana mi vengano ancora certe doglie acute, pure qualche bollitura di gioventù me la sento ancora fra le vene.

      A queste parole, sentitosi tutto confortare, il Bentivoglio era ritornato a Milano per preparare la figlia a quelle nozze che dovean essere imminenti; e in quel modo che tre anni prima


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