L'ultima primavera. Memini

L'ultima primavera - Memini


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di mobili e di tendaggi di damasco rosso, chiaro, splendido, un colore di sangue appena spicciato.

      La Duchessa sedeva allo scrittoio, un mobile antico, di stile Luigi XIV. Lo spazio n'era quasi tutto ingombrato da gingilli e da ritratti.

      Alzò il capo e depose la penna, interrompendo la lettera che stava scrivendo.

      Una donna sui quarantacinque, forse più. Non bella, non simulante la bellezza, non mascheratrice della propria età. Grande, un busto stupendo, questo sì. Due occhi grigi saettanti, pieni di fuoco, forti della scienza della vita. La bocca grande, sensuale, potente, il naso lungo, arcuato, colle nari larghe, palpitanti dei cavalli di razza. Nulla di leggiadro, di dolce nella fisonomia, ma una strana forza d'espressione. Violenti, perversi, forse, ma certo irresistibili, i voleri di quella donna. E sulla fronte ampia, il riflesso di un diadema invisibile; il bacio della cieca fortuna!

      Donna Marina venne lentamente a mettersi di fianco allo scrittoio della Duchessa e sostenne senza parlare, senza batter palpebra, l'esame che la Duchessa fece tosto, con un acuto, lungo sguardo, subire all'aspetto di lei.

      — Non c'è male — disse finalmente la madre, con quella sua voce roca, che si faceva talvolta stridente, ma che possedeva una infinita varietà di eloquenze — non c'è male davvero, sei veramente ad hoc.

      La giovane ebbe un freddo sorriso.

      — Ti pare?

      — Oserei persino dire una cosa. Come al solito, sei troppo bella.

      Donna Marina alzò alquanto le spalle.

      — Non è colpa mia — disse con lieve accento ironico — ed è il mio genere.

      — Infatti. Ma pare che pel momento non sia quello degli altri.

      La giovane non rispose, una piccola piega, duretta, anzi che no, si disegnò all'angolo destro della sua bocca.

      — La tua sviscerata amica tarda alquanto a venire — osservò la madre dopo un istante.

      — Oh! verrà! — disse Marina tranquillamente, essa non manca mai ad una promessa.

      — E questa cosa le sta molto a cuore, nevvero?

      — Pare.

      — Veramente è curiosa... Non so affatto comprendere la cagione di queste sue manie matrimoniali.

      — No? — ribattè Marina con una singolare, pacata ironia. — E se fosse semplicemente perchè mi vuol bene? La cosa sarebbe strana, lo ammetto. Pure...

      — Un affetto gratis... vuoi dire? Ebbene, infatti, perchè no? È capace di tutto quella contessa Elisa. Ti accerto che le sono riconoscentissima. E lo sarò più ancora se riesce nel suo pietoso intento, trovandoti cioè un marito. Il che dovrebbe esser fatto da parecchio tempo. Hai venticinque anni, mia cara figliuola.

      — Lo so — disse Marina con quella pacatezza sforzata che torna talvolta, nei giovani, sì penosa a vedersi. — Comprendo di esser molto indiscreta. Dovrei essere maritata da parecchio tempo, come dici. Mi par equo però l'aggiungere che, se non lo sono, non è tutta colpa mia.

      Mentre Marina diceva questo, il suo sguardo aveva errato di volo pei recessi del salotto. Ma, ad un tratto, s'arrestò sul ritratto fotografico di un bellissimo giovane. Il ritratto, incorniciato in una piccola quadratura di rose d'Olanda, stava su un tavolino di peluscio color fuoco, collocato assai presso allo scrittoio della Duchessa.

      Sul volto di questa passò rapidissima, appena visibile, una contrazione nervosa. Ci fu nel colloquio un momento di sosta, grave, penoso, pieno di minaccie d'uragano.

      Ma l'uragano non venne.

      La Duchessa appoggiò il capo alla spalliera della sua poltroncina ed osservò a lungo, con una specie di curiosità umoristica, la giovane che teneva chinati gli sguardi.

      — Marina, sta attenta — disse poscia Ginevra — tu diventi mordace, e questo è per l'appunto un difetto da zitellona. Non va, credimi. Ritorna al tuo sistema di amenità, ti sarà più giovevole.... per intenderci.

      Madre e figlia scambiarono uno sguardo, pieno di amara ironìa.

      — Hai ragione — disse Marina lentamente.

      Socchiuse gli occhi per un secondo. Quando li riaperse, era calma, padrona di sè stessa.

      — Dicevi, mamma?...

      — Dicevo, mia cara Marina, che non è il caso di perder tempo. Eccoci dinnanzi ad una nuova occasione. Speriamo che tutto andrà bene, che il giovane ti piacerà...

      — Mi piacerà — interruppe freddamente Marina.

      — Davvero?... Allora tanto meglio. Voglio sperare ch'egli non sarà meno determinato di te. Il partito è eccellente. Sono però, te ne avverto, gente dell'altro mondo. Vivono in provincia e hanno delle idee... Ti senti di adottarle?

      — O di farle mutare, — rispose Marina, dopo un istante di riflessione.

      La Duchessa guardò sua figlia con un sorriso enigmatico. — Tanto meglio — disse poscia — sarà un bene per loro. Ora, solo resta ad augurarsi che la cosa si faccia. Ti confesso però che vorrei vederla in altre mani. La contessa Elisa è un angiolo di donnina. Non sa come ammazzare il tempo, sa che non sei felice e...

      Un rossore passò sul volto di Marina.

      La Duchessa rideva.

      — Ma sì, cara, cosa importa? Tanto meglio se hai rappresentata bene la tua parte, muta s'intende, di vittima interessante. D'altronde, hai sempre avuta la manìa della brava gente. Te la contrasto forse? Anzi, può essere che abbi tutte le ragioni. A proposito, spero che avrai data un'occhiata alla Guida e che non ti lascerai prendere alla sprovvista in fatto di nozioni artistiche. Ed è inteso che ignori tutto, nevvero? che il vostro incontro è dovuto alla più fortuita delle coincidenze?

      Marina assentì con un cenno del capo.

      — Benissimo! Sta attenta, non perder mai di vista il tuo scopo. Non tradirti. Credo che potrai agevolmente condur lei, ma bada a quel suo amico milanese, mi pare di tutt'altra pasta. E comincia subito, se ti piace; ecco la tua utilissima protettrice.

      Un lieve strepito di passi veniva infatti dalle sale vicine. Poco dopo, un domestico annunziò la contessa di Serramonte.

      La Duchessa mosse ad incontrare e salutò la sopraggiunta, colla massima cordialità.

      Elisa Nardi, vedova Serramonte, era più bella e più giovane di donna Ginevra. Non toccava per anco la quarantina. Una figuretta fine, delicata, poco appariscente, distintissima d'aspetto e di modi. Il suo contegno era grave, riserbatissimo, privo di quella scioltezza un po' sprezzante che alle signore di oggidì sembra rappresentare l'ideale dell'effetto.

      Ella era timida, di una timidità singolare, di sensitiva, che cercava nascondere, senza punto riuscirvi e che molti battezzavano per orgoglio. Ma non era orgoglio. Viveva molto per conto proprio, in tutto fedele a' suoi principii ed ai proprii istinti, e non aveva ancora potuto riescire a non soffrire quando li sentiva urtati o quando si sentiva costretta a sopprimere, esternamente, l'effetto di quell'urto. Quando, per esempio, ella doveva dare una stretta di mano a Ginevra d'Accorsi, provava una curiosa sensazione di sforzo intimo!

      Pure, come non dargliela quella solita, superficiale stretta di mano? Il mondo diceva della Duchessa tutto ciò che si può dire di poco lusinghiero sul conto di una donna, ma perciò forse il mondo ristava dall'accoglierla, dal festeggiarla, dal correre alle sue feste?... Non era ella bene spesso chiamata a dare il suo verdetto (e un verdetto senza appello) sull'expedit, o meno, di ricevere una nuova arrivata, aspirante a penetrare nella migliore società fiorentina? Si scambiavano qualche visita, quelle due care signore, e ora la contessa Elisa di Serramonte non veniva forse a prendere la figlia di Ginevra d'Accorsi per condurla a passeggio?

      La Duchessa aveva talvolta avvertita la piccola nube rosea che passava sul volto della Serramonte, quando le loro destre s'incontravano.

      Ciò la divertiva... diceva ridendo


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