L'ultima primavera. Memini
tentò un briciolo di difesa.
— Non sapevo che aveste gente, così di buon'ora. So che siete sempre sola prima del mezzodì, o non vedete che le vostre amiche intime, quelle solite.
— Non importa, bisognava sapere. È curioso, non ne azzeccate mai una, neppure per isbaglio.
Egli chinò il capo, sospirando, e cercò un conforto nell'estremo splendore della vernice de' suoi stivaletti. La Duchessa si divertiva.
— Le mie amiche, — continuò con quel suo accento stridente. — E che sapete voi delle mie amiche? E se per l'appunto volessi farmi un'amica intima di Elisa Serramonte?
Colto all'improvviso, Dino non pensò a dissimulare la sua meraviglia e questa fu sì palese, sì schietta, che la Duchessa cessò affatto di divertirsi ed aggrottò le ciglia.
— Ebbene, — disse duramente, con un'intima collera — perchè fate quell'aria grulla? Vi par forse impossibile la cosa?
— Io? Oh no, no... anzi! — s'affrettò a rispondere Dino. — È solo perchè so ch'ella conduce una vita tanto... ritirata, e si vede pochissimo e mi pareva d'avervi sentito dire ch'ella è terribilmente noiosa. Solo per questo... e poi... già; insomma, non capisco.
La Duchessa si mise a ridere, poichè la sua collera era già svaporata.
— Oh! mio caro Dino, ora siamo d'accordo. È il vostro forte, il non capire. Suvvia, non fate quel viso intontito. Un'altra volta, accertatevi se ho gente prima d'entrare.
— Ah! — diss'egli con trasporto — non siete più in collera?
Di nuovo ella rise, con uno sguardo enigmatico.
— No, non sono più in collera.
Egli si mosse, coll'evidente intenzione di andarla a ringraziare più da vicino; ma ella aveva ripigliata la penna, ed il piccolo cric cric metallico ricominciava sul foglio che stava davanti alla Duchessa. Dino non osò disturbarla.
Solo dopo una buona diecina di minuti, essa gli rivolse la parola.
— Ordinate il mio landeau, per le quattro. E oggi venite a cavallo alle Cascine. L'americana, con Fitz Maurice. Badate meglio all'attacco. Ieri, sul Piazzone, Poniatowski ha osservato qualcosa. Almeno in questo, siate irreprensibile.
— Farò quanto potrò. Stasera, alla Pergola, nevvero?
— Non so se ci andrò. Passate in prima sera. Oggi ho la visita all'asilo, alle tre.
— Devo venirvi a prendere?
— Venite... se volete. Aspetterete; perchè non so quando riescirò a sbrigarmi dalle suore. Ora andate, mio caro, ho un monte di faccende.
Egli obbedì... A malincuore, ma obbedì. Se ne andò chiotto, chiotto, senza ch'ella lo accompagnasse col saluto dello sguardo. Non lo reclamò, non voleva irritarla. Trovava d'essersela cavata a buon mercato, a paragone delle altre volte. Avrebbe dovuto invece impensierirsi di quella nuova indulgenza.
Quando fu escito, la Duchessa depose la penna e rimase un istante inoperosa ed accigliata. Poi crollò irosamente le spalle.
Ah! cominciava ad annoiarla colui... Dino di Follemare!
II.
— Vedi, cara. È lassù.
La contessa Elisa accennava coll'ombrello ad una vecchia e semi diroccata chiesuola, eretta sulla vetta di un colle, dal quale poco distava ormai la carrozza. Il piccolo edificio era facilmente visibile, in mezzo alla boscaglia denudata dai recenti venti autunnali, ma, nell'estate, doveva a mala pena indicarsi nella ricchezza del frascato, nicchiandosi con un gentile aspetto di chiesetta idillica. Ma in quel giorno, sotto quel cielo triste, era triste anch'essa, la povera cappella abbandonata.
La carrozza si fermò sul sagrato mentre dalla porticina ogivale esciva ad incontrare le due signore un gentiluomo di nobilissimo aspetto, di volto ancor fresco e di belle fattezze, a cui davano strano rilievo una bella capigliatura affatto bianca, e due baffi grigiastri lunghi ed a punte. Alto di statura, aveva nell'assieme dell'esser suo un'imponenza geniale, simile a quella che fa dire a Calibano, quando s'imbatte con Prospero, nell'isola dove questi è approdato, dopo la tempesta: — Avete qualcosa, signore, ch'io chiamerei volentieri padrone.
Aiutò le signore a scendere di carrozza, complimentandole del loro coraggio a sfidar le minaccie della piova. Poi scambiò colla contessa Elisa un rapido sguardo d'intesa. Erano vecchi, eccellenti amici, quei due!
Si fermarono un momento sul piccolo atrio a guardare la vista fantastica, sotto il suo disuguale velame di nebbia, mentre Marina girava assiduamente le rotelline del suo cannocchiale. Don Marcello Plana alla Contessa:
— Mi sono presa una libertà. Ho condotto qui un mio amico. Mi permettete di presentarvelo?
— Perchè no, Don Marcello? È un vostro concittadino?
— No, è bresciano. Il marchese Maurizio Fedimari. — Conoscete la famiglia?
— Oh benissimo... Bonne souche, certamente... E che fa? si trattiene a Firenze?
L'abilità di quella donna, per recitar la commedia, era qualcosa di sublime; le tremava persin la voce.
Ma Don Marcello l'ascoltava serio serio, e Donna Marina, che avea finalmente trovata la giusta misura del cannocchiale, guardava... oh lontano, lontano assai nel paesaggio.
— Secondo, — rispose sagacemente Don Marcello. — È un tipo curioso quel mio amico. Forma la mia disperazione col volermi sempre obbligare a inventargli qualche nuova scoperta in fatto di arte. Si è divorato Firenze in un mese, colui! Ora, per dargli ancora un piccolo osso artistico da rodere, l'ho condotto qui. E, sentendomi al tutto esautorato, in fatto di musei e di gallerie, ho pensato egoisticamente di raccomandarlo a voi.
— Ma è un tradimento — disse la Contessa ridendo. — Come potrò?...
— Oh! con voi non c'è da sgomentarsi, in fatto d'arte. — Quando non ce n'è più, ce n'è ancora. Fatemi questa carità, lasciate che vi presenti il mio amico. E ora, entreremo in chiesa, se vi piace.
Entrarono in chiesa; una bizzarra vetusta cappelletta, le cui pareti serbavano ancora qualche vestigio di due distinti stili di antica dipintura.
Erano state evidentemente trattate a due riprese, e sotto la grossolana maniera di un mediocrissimo pittore del secolo scorso, emergeva l'austerità ideale ed ingenua di un pennello cinquecentista. Un tratto di processione sacra, coi suoi gruppi serrati, senza spazio, di profili bianchi, di testine rossiccie accatastate una a ridosso dell'altra, di bizzarre foggie medioevali d'abbigliamenti, era troncato bruscamente dai gonfi drappeggi del manto di una Giuditta, opera del pittore più recente, mentre la faccia apopletica di questa si perdeva alla sua volta in una nuvolaglia di salnitro del più nebuloso effetto. Ogni tanto il mistico stile antico tornava a far capolino, due delicatissimi nudi si rivelavano, nella loro squisita snellezza di forme, al disopra di una ondulatura verdognola che, nell'intenzione dell'autore, rappresentava le acque del Giordano, raffigurando così un battesimo di Cristo abbastanza riconoscibile. In una cappella laterale era alzata su un piedestallo una Madonna moderna, colla faccia di legno di grossa bambola fatticciona, vestita di broccato, con sei vezzi di granate al collo e con un paio di buccole a pendente, ma dietro all'altar maggiore, nel vecchio trittico dall'oro spento, azzurreggiava idealmente, cinta d'angioli esultanti, una Madonna di frate Angelico.
In un angolo della chiesetta, presso all'uscio della piccolissima sacristia, il sacrestano aveva accatastato la sua scarsa raccolta di patate, ma a sommo dell'uscio stesso, nella sua cornice intrecciata di fiori e frutti, si sporgeva dal fondo cilestrino, in terra cotta verniciata di bianco, uno di quei dolcissimi gruppi di madre e bimbo ai quali si collega tuttora il pensiero di un caro nome, quello di Luca della Robbia.
Tremolava lievemente, davanti all'altare, in un orribile lucernario d'ottone, la fiammella