L'ultima primavera. Memini

L'ultima primavera - Memini


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adottato, per vendicarsene, un curioso sistema. Quella donna che, senza volerlo, la condannava, ella la affascinava. Ginevra aveva per lei una cortesia speciale, piena di delicati sottintesi, di deferenza, non scevra d'una tinta di malinconia. La Contessa resisteva, non sempre però, e col segreto malessere di chi si sente strascinato. C'era bensì, fra quelle due donne, qualcosa d'indefinito e di latente, il germe forse di un'aspra lotta futura.

      La Duchessa era proprio desolata di non poter andare anche lei a visitare quella bella cappelletta. Marina si riprometteva un sì squisito godimento artistico!

      La contessa Elisa fu lì lì per arrossire come una colpevole, pensando al tranello che aveva preparato per quella povera Marina.

      La madre lanciò all'amica di sua figlia una rapida occhiata d'intesa e le strinse di soppiatto la mano. La faccia di Marina ignorava tutto, serenamente.

      La conversazione durava, tenuta viva dalla Duchessa. Quella donna sapeva parlar d'arte, quando voleva. E lo voleva ora, e riesciva a tener Elisa sotto il giogo della sua parola viva, smagliante, originale... Subito, entrò nel campo personale:

      Certo, ella invidiava profondamente la Contessa, che aveva il coraggio, l'indipendenza dei propri gusti. Che nobile esistenza aveva saputo creare a se stessa non immolandosi alla vita mondana che esige tanto e rende sì poco!

      Elisa guardava attonita la Duchessa. Ell'era già quasi impressionata da quelle parole inattese, che parevano quasi involontariamente sfuggire dalle labbra di quella donna.

      La Duchessa ebbe un lieve sospiro.

      — Ah!... perchè non tutte possono fare come lei! A volte, creda, siamo trascinate nostro malgrado nel vortice di questa esistenza. Si ha bisogno di stordirci... di scordare... Si sente il vuoto, la stanchezza di tutto ciò. E poi, col passar degli anni...

      Un bello spirito fiorentino aveva detto un giorno, della Duchessa Ginevra d'Accorsi, ch'ella aveva tutto canzonato nella vita, cominciando dal tempo. Ma con tutto ciò, Elisa sentiva levarsi in cuore un'insidiosa pietà di lei, del possibile stato d'animo che le strappava, in quel momento, quei lembi di confessione. Poichè, dopo tutto, il suo ingegno doveva pur qualche volta palesarle il vero, qualche buon sentimento doveva pur destarsi ogni tanto nell'animo di quella donna! E forse, coltivato, sorretto da un'amicizia sincera...

      — Duchessa, — disse timidamente, commossa, con una dubbiosità che faceva un po' tremula la sua voce, — la comprendo. So che non è sempre in poter nostro...

      Non finì la frase suggestiva e pietosa.

      Un uscio laterale, quello che metteva all'appartamento privato della Duchessa, s'aperse a un tratto con impeto e un bellissimo giovane entrò senza preamboli, seguito da un mops corpulento.

      S'arrestò sulla soglia, perplesso, evidentemente confuso. Non si aspettava di trovar visite, a quell'ora, nel salotto della Duchessa. Quel giovane somigliava molto al ritratto sul quale lo sguardo di Marina Negroni si era posato sì efficacemente, nel colloquio di poc'anzi, colla madre sua. E davvero egli poteva somigliare a quel ritratto, n'era semplicemente l'originale.

      La contessa Elisa tacque ed arrossì. Sapeva... La sua testina ebbe un involontario moto di alterigia, ed ella s'alzò di scatto. Marina si abbottonava i guanti. La Duchessa aveva per un secondo fulminato il giovane collo sguardo. Ma già ella rideva, il più normale, schietto riso del mondo.

      — Ma bravo, Dino, che bella maniera di capitare così, come una bomba, con quel vostro orribile Brusco! Venite dalla scuderia, scommetto. Come sta Rudygore?

      — Rudygore?... Ah!... sicuro. Meglio, oh bene... bene — rispose il giovane, cercando di rimettersi in carreggiata, ed avanzandosi per salutare la Contessa, che pareva restringersi nella persona, con un moto involontario.

      — Ah! — sclamò la Duchessa con un sospiro di sollievo. — S'immagini — continuò vivacemente, rivolgendosi ad Elisa — uno dei nuovi cavalli da corsa, testè giunti da Londra, e che si era ammalato, ma sul serio, sa? Siamo stati tanto in pena! Pippo non si muove dalla scuderia, e ogni tanto mi manda le notizie. Bene dunque, Dino, proprio bene? Il veterinario è contento?

      Il giovane afferrò la pertica e si tenne a galla con bastante disinvoltura. Incominciò, infiorandola di termini tecnici, una confortante relazione sul verdetto del veterinario.

      Ma alla prima pausa, Elisa, che non si era rimessa a sedere, si rivolse quietamente a Marina.

      — Si fa tardi, cara, vogliamo andare?

      La giovane assentì, colla sua calma imperturbabile e le due signore si congedarono dalla Duchessa.

      — Ebbene... mie care, divertitevi, — disse questa maternamente — spero che il tempo non vi farà dei brutti scherzi. No, Dino, non vi lasciate venir la tentazione. Si tratta di arte, non ci capireste nulla, mio caro. Marina invece e la Contessa se la godranno un mezzo mondo.

      Le due signore si strinsero la mano, naturalmente. Ma forse più delle altre volte, quella di Elisa rimase fredda ed inerte nel momentaneo contatto. E la Duchessa se ne avvide.

      Fe' cenno a Dino che accompagnasse le due signore sino all'anticamera. Poi queste scesero sole, in silenzio, il grande scalone di marmo.

      Marina era alquanto pallida.

      L'elegante vittoria della Contessa attendeva dinanzi al portone. Presso i cavalli e tutto immerso nella sapiente contemplazione di essi, stava un uomo piccolo, d'aspetto triviale, vestito d'un tout-de-même a larghi scacchi bianchi e neri e col volto ornato di due classiche fedine da cocchiere. Quell'uomo non era un cocchiere, era il duca Pippo d'Accorsi, il marito di Ginevra.

      Si scosse al sopraggiungere delle due signore, e le aiutò ad entrare in carrozza, con qualche frase di circostanza. Aveva, con un forte accento napoletano, l'abitudine dell'imitazione secca, concisa dell'accento inglese.

      — Dembo cattivo... ehm... pista rovinata... Omaggi, Condessa.

      La Contessa rispose in fretta con un cenno di capo. Marina si acconciava con garbo nel suo cantuccio.

      Dino, frattanto, tornava lentamente, trascinando il passo, verso il salotto della Duchessa, e il suo volto recava palese l'espressione di un intimo turbamento. — Ah! la Duchessa! Ora, bisognava sentirla! Capiva d'aver commesso un grosso marrone capitando così, poc'anzi, nel salotto. Temeva, più del fuoco, la collera imperiosa di quella donna ch'egli amava, poveretto. A modo suo s'intende, ma sinceramente, l'amava.

      Entrò adagino, procurando di non far strepito.

      Ella non parve avvertirlo. Continuò a scrivere senza degnare il giovane d'uno sguardo. Si udiva, sulla superficie della carta inglese, lo stridere della penna che correva, mossa da una mano irritata. Sulla fronte di quella donna stava una nube di scontento.

      Dino era più che mai sgomentato. Quel silenzio non prometteva nulla di buono ed egli avrebbe preferito di sentirla addirittura. Ma non osava parlare pel primo.

      Mutò più volte sedile, tentò la lettura d'un giornale. Finalmente si recò presso al caminetto e prese a considerare, come se li vedesse per la prima volta, gl'innumeri gingilli che ne ornavano il davanzale. Tolse in mano un aereo calice del Salviati, e nel riporlo a posto, l'urtò alquanto contro una bomboniera di Vieux-Vienne.

      La Duchessa alzò il capo, per muovere un acerbo rimbrotto a quel malaccorto. Ma Dino la guardava sì impensierito, la sua bella e stupida faccia recava un'espressione sì comica di timore, che la Duchessa si sentì quasi disarmata.

      — Ebbene, — disse bruscamente, — cosa fate costì?...

      — Non s'è sciupato niente... — s'affrettò a rispondere Dino, — tutto incolume... guardi.

      — Meno male. Mi pare che ne abbiate fatti abbastanza, oggi, dei guai!

      La Duchessa non era più adirata, internamente, con Dino, ma pensava che una lezione non sarebbe inutile.

      — Sì, davvero! Avete dimostrato un tatto... una delicatezza! Capitare a quel modo e da quella parte, con quel fare da ragazzaccio, col vostro cane alle calcagna.


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