L'ultima primavera. Memini

L'ultima primavera - Memini


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Elisa rammentava senza rammarico alcuno, quella specie di amorosa supremazia esercitata su di lei; non solo per l'autorità di qualche anno di maggiore età ma anche per una speciale precocità del carattere di Tecla, precocità sì marcata, che pareva avere affrettato per lei il corso naturale del tempo e tutto arrecatole in anticipazione.

      Tutto: l'amore, il matrimonio, la maternità.

      A sedici anni, alla sua prima festa da ballo, Tecla d'Oppado era colpita in pieno cuore da una passione romantica ma sincera, per un brillante ufficiale, molto bello, molto nobile e molto rovinato. Pieno di spirito e di brio, disinvolto ed elegante come un moschettiere di Dumas, con un taglio d'occhi azzurri che metteva nelle loro orbite la profondità d'un mare, egli si accorse subito dell'impressione da lui esercitata su quel cuoricino. Tecla non era brutta ed egli la sapeva ricca, forse l'amò pure alquanto, a modo suo. Certo è che seppe convincerla ch'ella non poteva essere felice altrimenti che con lui e manovrò sì bene l'azzurro degli occhi suoi che la indusse a dire gravemente ai vecchi nonni, i quali sostituivano per Tecla i perduti genitori: O quello, o nessuno!

      I buoni vecchietti provarono bensì a ridere di quell'ultimatum; ma dopo cinque o sei mesi d'indugio, davanti a quella faccetta pallida e risoluta, su cui parevano andar segnandosi certe stimmate, della famiglia di quelle ch'erano un tempo impresse sul volto della madre di Tecla, morta a ventott'anni di mal sottile, i nonni mutaron parere, e un bel giorno la fanciulla entrando in salotto, vi trovò il conte Aynardo Rescuati Melli. Otto giorni dopo, i giovani erano fidanzati.

      Ella fu felice, inenarrabilmente felice. Subito si riebbe. Ci sono di quelle donnine così fatte, per le quali l'amore è simile alla selvaggia canzone dello zingaro fattucchiero che attira specialmente i bambini. Li chiama dai palagi, dalle case, dagli abituri, li toglie ai giuochi, alle gonne delle madri, irresistibilmente! Ed essi vengono giulivi, danzando, battendo le mani in cadenza colla canzone che li guida, dove sa lei, nei labirinti ciechi, nelle solitudini misteriose di una foresta senza fine, nelle strade perse, senza sbocco, della vita.

      Ella ubbidì a quell'appello e danzò, giuliva, correndo sulle traccie del fattucchiero!

      Dapprima, sul sentiero misterioso fu un incomparabile fioritura di gioie, ed ella tanto ritrovò della sua vita da poterne dare ad un altro essere, dieci mesi soltanto dopo essersi sposata. E le parve allora di poter gettare al destino un osanna di completa, assoluta gratitudine.

      Le parve.

      Poichè non è nostra la felicità che ci dona esclusivamente l'amore. Noi, col nostro facciamo assai, ma a tutto non si arriva e l'amore è zingaro e frequenta le strade disagevoli che rasentano gli abissi. Il conte Aynardo Rescuati Melli cominciò a sbadigliare un poco, passata quella prima festa di felicità coniugale e paterna. E un giorno, ahimè! s'avvide d'esser molto giovane per un marito ed un papà!

      Già... un po' lunghetta la storia! Le sue doti brillanti, l'acciaio terso del suo spirito si arrugginivano in quella cittaduzza di provincia, fra quelle due graziose foggie di bimbi che aveva in casa, la moglie cioè ed il figlio. Per non pensare a quelle malinconie cercava di distrarsi; poveretto! E per distrarsi, consumava molto della dote che gli aveva recato Tecla e sbocconcellava pure un poco di quella fede ch'egli aveva recato a Tecla. Il cambio non era generoso, Tecla se ne avvide e si destò ad un tratto, nel fitto della notte e della foresta. Sola, lo zingaro era scomparso! La canzone non aveva più che un ritornello; quello di Tecla.

      Ella era molto giovane, molto inesperta, attorniata da persone vecchie che avevano scordata la scienza della vita. Fu bene, mal consigliata da esse o dal suo cuore? Fu saggia nel suo risentimento? Aggravò la scissura, coll'impetuosità appassionata del suo dolore? Certo; aveva ragione la poveretta. Ma quando mai, in amore, aver ragione fu una ragione valida?

      Il conte rientrò al servizio militare ed ebbe la nomina di addetto ad un'ambasciata estera. Ella rimase nel suo vecchio palazzo, coi vecchi nonni e col bimbo. Non erano separati. Egli veniva ogni tanto in famiglia, e purchè non troppo prolungate, quelle visite erano piacevolissime per lui. Faceva un mondo di feste alla moglie e al bimbo, recava loro doni ricchissimi, di un gusto squisito, narrava dei piacevolissimi aneddoti ed alludeva volentieri al tempo in cui, stanco del servizio militare, verrebbe a casa a piantare i cavoli e far studiare quel birichino.

      Ma invece, un brutto giorno, a Vienna, se ne morì, stupidamente, in duello per una donna, che non valeva un'ora sola della vita più inutile di questo mondo. A Tecla, dissero ch'era morto di bronchite fulminante!

      Quando egli fu morto, ella seppe una cosa: che l'aveva sempre amato, anche offesa, anche lontana da lui. Ma di lui, ora non restava che Roberto. Ed ella amò Roberto per due, per lui e per il padre suo.

      Ci sono due maniere di amare le persone: A modo loro e a modo nostro. Coll'idea del come vorremmo essere amati noi, o del come esse amano d'essere amate. Il primo metodo, Tecla lo aveva applicato al matrimonio e non era stato coronato da un brillante successo. Perciò volle, col figliuolo, fare un nuovo esperimento, amarlo cioè a modo suo, contentandolo in tutto. A dir vero, ella corteggiava un fiasco, più colossale del primo, ma il destino, per questa volta almeno, chiuse un occhio sulla sua imprudenza. Nè ella, nè i nonni furono capaci di rovinare Robertino.

      Il ragazzo era nato col bernoccolo della resistenza ai metodi sperimentali. Profittava naturalmente di quella tempesta di amore, ma a dispetto di quella trinità d'idolatrie, cosa incredibile... non diventava un ragazzaccio!

      Era un ragazzo come gli altri, un po' più birichino forse, con una passione speciale per fare il chiasso ma comodamente, a casa sua. Non diceva bugìe, forse perchè non aveva mai avuto bisogno di dirne, voleva quel che voleva; spiattellato, senza rigiri. Tiranneggiava la mamma, questo va da sè, trattava i nonni con una disinvoltura notevole e dimostrava a loro riguardo una estrema libertà di spirito, ma era loro affezionato e stava volontieri in casa.

      Non era un'aquila d'ingegno e studiare gli parve sempre una cosa perfettamente inutile, ma egli strinse le più cordiali relazioni cogli innumeri maestri che la mamma, pur di non mandarlo a pervertirsi nelle scuole pubbliche, gli faceva pullulare in casa. Tutte queste brave e colte persone, egli finiva invariabilmente collo scoraggiarle come istruttori, ma se ne faceva degli eccellenti compagni di escursioni e di cavalcate, nonchè dei caldi amici personali. Andava a caccia col fattore, il quale lo adorava e lo derubava doverosamente e gli diceva sempre, accennando dei larghi tratti di paese: Vede, tutto questo è suo. Le piante, il grano, l'erba, i sassi, le bestie, tutto suo. E anche la roba dei vecchi, quelle belle tenute laggiù, sue anche quelle. Cosa vuol stare a rompersi il capo sui libri?... Lo lasci fare a noi, poveri disperati. E lei, stia allegro e se la goda.

      E lui... sfido io, non dava torto al fattore, quel diavolo di ragazzo.

      Elisa rammentava benissimo quel monello di Bertino. Doveva essere sugli otto anni quando ella e Tecla si separavano, ah! con quanto dolore di entrambe! Tecla, per andare a stabilirsi in un'orrenda cittaduzza delle Marche, ove uno zio canonico aveva testè lasciato una bella eredità a Bertino; Elisa per seguire il padre suo, in un giro scientifico in Sicilia.

      Veramente fu un dolore, quella separazione. Erano amiche nel senso reale, sì raro della parola, malgrado la non lieve differenza d'età, malgrado la non pari posizione. Due anime proprio fatte per simpatizzare, quella vedovina malinconica, non ancora scevra di tutte le sue ubbie di fanciulla, e quella fanciulla grave, posata come una piccola matrona. Per tanti anni non s'erano più vedute, la corrispondenza erasi mantenuta per un tempo non breve, ma poi era venuta meno. Tecla era assorbita dalle sue cure per Berto, ed Elisa aveva ormai delle mansioni speciali presso il padre suo.

      Afflitto da un inesorabile e progressivo indebolimento della vista, il barone Nardi, soffriva crudelmente di non potersi più dedicare ai severi studi storici, cui doveva la sua alta fama di scienziato. Ma questo dolore, la figlia alleviava quanto era in poter suo, prestando al padre i suoi begli occhi di Antigone, la sua armoniosa voce di lettrice e la chiara calligrafia, della quale la sua mano elegante rivestiva il dettato di lui sui fascicoli della sua grande opera: Le rivoluzioni dei Comuni Italiani. E una cosa soleva dire, serenamente, Elisa Nardi, (che le attirò un buon rabbuffo della zia Balbina, la testa forte della parentela): ch'ella, cioè, sposerebbe tanto volentieri un uomo che somigliasse al padre suo! E il bello è, che n'era


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