L'ultima primavera. Memini
di drappello di riserva, tutto dello stesso calibro, gente che pizzicava di lettere o notevole per qualche altro merito proprio. Dell'umanità, ella amava le api, non le vespe, e stava a disagio fra le persone frivole.
Dopo il pranzo, nell'appartamento di gala, tutto illuminato, cominciava verso le dieci a capitare una brigatella composta d'una ventina a una trentina di amici e di amiche. Si faceva musica e molto buona, di genere sempre serio, e non di raro classica. L'ambiente stesso di quella conversazione, non mai prolungata oltre il tocco, era piuttosto grave. Non si faceva che il minimum possibile della maldicenza, spesso vi si incontrava qualche autentica celebrità forestiera d'arte, di lettere. Erano assai ricercati gli inviti, che la contessa Elisa distribuiva molto parcamente.
Quando non esciva la sera, il che le accadeva di frequente, gli amici più stretti erano benvenuti nel suo salottino intimo, quello dove soleva stare anche quando era sola. Un amore di nicchietta quel luogo, tutto piante esotiche, palme, fiori, ninnoli, ricordi di viaggi. In alto, sulle due pareti opposte, sul damasco pallido a mazzettini di fiori dalle tinte sbiadite, campeggiavano due splendidi ritratti: la testa profonda, geniale del padre di Elisa, e la fisonomia patita, un po' insignificante di suo marito.
Colà venne a dirle addio, una sera, Don Marcello Plana. Partiva il domani per Milano.
Qualcuno era testè escito dal salotto. La Contessa e Don Marcello, soli ormai, parlavano di quel «qualcuno». Don Marcello le chiedeva, sorridendo, che impressione le avesse fatto Roberto Rescuati: quel suo figliuolo.
Accentuava, con una intonazione alquanto ironica, questa parola, godendo visibilmente del lieve imbarazzo che si dipingeva sul volto di lei e ch'ella tentò celare, spostando la domanda: — Piuttosto, che ne pare a voi?...
Ma egli insistè:
— Chiedo scusa, è la vostra opinione che occorre anzitutto. Suvvia, compromettetevi.
Ella esitò un istante.
— Non saprei — disse poscia. — Mi pare un giovane... come tutti gli altri.
— Saggia risposta, degna di una sibilla indulgente. Ora vi darò la mia. Quel giovane è bello, più bello degli altri!
— Trovate?... — chiese Elisa con sincera meraviglia.
— Trovo. Ha bellissimo fattezze, un corpo da Antinoo. Appartiene ad una razza forte, non degenere fisicamente.
Ella pensò un momento; poi disse: — Sì, è vero. Le fattezze sono regolari. Ma non mi sembra che la fisonomia esprima molto. Non è certo quello che si chiama una figura interessante.
— No, per ora e nel vostro senso. Voi siete soprattutto, troppo forse, abituata ad apprezzare, nella fisonomia d'un uomo, solo ciò che vi è di intellettuale. Vi siete fatta una strana idea della bellezza. Siete troppo esclusiva in favore di un dato sistema delle sue manifestazioni. Permettete ch'io vi ripeta che il vostro figliuolo è bello, e che voi non lo sapete e, ciò ch'è più grave, che per ora non lo sa neppur lui.
— Ebbene tanto meglio! non sarà uno dei soliti Narcisi, ed io potrò più facilmente adempiere la mia missione.
Sulla nobile fisonomia di Don Marcello passò un'espressione rapida e bizzarra; un baleno, quasi tenero, di pietà.
— Sì — disse lentamente — vi credo.
Ella si mise a ridere: — Come siete grave!...
Subito si fece grave ella stessa. — Povera Tecla! — disse con un sospiro.
Egli ebbe una smorfia curiosa. — Uhm. L'amate molto, nevvero?
— Oh tanto! È così cara, così infelice! E voi pure, se la conosceste, ne sareste entusiasta!
— Perdonate, non ho l'entusiasmo facile. Mi pare che quella donna deva essere un po'... come dire?... avventata nelle sue imprese. Se foste a tempo, vi darei un consiglio. Anzi ve lo do, per ogni buon caso. Non accettate la missione che la vostra amica crede bene di affidarvi.
Elisa lo guardò bene in viso per vedere se scherzava. Poi disse semplicemente, con schietta meraviglia:
— Perchè?
Don Marcello sorrise. Un sorriso tutto suo, che impartiva un piccolo moto sarcastico ai lunghi mustacchi bianchi onde aveva sì forte rilievo la sua fine ed ancor giovane fisonomia di gentiluomo. Elisa lo guardava attentamente, nell'attesa di una spiegazione, che non venne.
— Perchè? — disse ancora serenamente. — Cosa sarebbe l'amicizia se non desse dei diritti e dei doveri? Tecla non mi dà forse la più alta prova di fiducia e d'affetto, credendomi degna di giovare a suo figlio?
Egli sorrise ancora, a modo suo.
— Oh... non abbiate paura. Ne siete degna e gli gioverete. Spero che avrete sufficiente influenza sull'animo suo per indurlo a mutar sarto, per esempio...
— Oh, si veste orribilmente, è vero. Ero sulle spine, martedì sera. Avete veduto come sogghignavano quei giovani? Che volete! È triste a dirsi, ma scommetto che è il portiere del suo palazzo che lo ha vestito sino ad oggi.
— Suvvia, coraggio. Non vi sgomentate così. Imparerà. Vi pare abbastanza intelligente per ciò e per il resto?
— Oh Dio! A dir vero, non so... Pare che per lo studio non abbia mai avuto trasporto. Martedì, a pranzo, l'avevo messo tra il comm. Gerra e il principe di Cannera. Ho una gran paura che si sia annoiato. Certo non aveva l'aria di divertirsi. E quei due avevano fatto l'impossibile, glielo avevo tanto raccomandato! E alla sera, mentre si eseguiva il terzetto di Grieg... sapete, quella sublime cosa, in fa minore. Ebbene, lo credereste? lui, quel mio figliuolo, l'ho visto sbadigliare più volte dietro il gibus, e finalmente lemme lemme, nel più bel punto della suonata, si è rifugiato nel fumoir.
— Orribile, infatti. Dunque per voi è stata una delusione?
— Non potrei dire, coscienziosamente. Ero prevenuta. Ma lo speravo... che so io?... più fine, meno terra terra; speravo che somigliasse un pochino di più a sua madre.
Egli fece un comico gesto di rammarico.
— Anch'io vorrei che somigliasse assai più a sua madre... anche fisicamente... guardate.
— Ah!... Ma se lo trovavate tanto bello poco fa?
— Perdonate, lo trovo bello tuttora. Lasciate che si liberi dai suoi fracs esotici e che pigli un po' d'aria fiorentina. Sarà bello anche troppo, e se ne accorgeranno abbastanza e avrete del filo da torcere finchè vorrete, mia cara amica.
Ella sorrise, colla sua dolcezza tanto pura e geniale.
— Me lo immagino. Ma non si è mica mamme per nulla, nevvero?
— No — rispose don Marcello — voi non sarete mamma per nulla, nè a mezzo. Questo è ciò che più mi irrita. Vedo il vostro programma, è bello, sublime, ma...
— Avanti — diss'ella ridendo, vedendo che l'amico s'interrompeva.
Egli scosse il capo e aggrottò alquanto le ciglia.
— No, non ve lo dico, cos'è. Non potreste credermi e non sapreste mutarlo. Tutto sta, d'altronde, nel risultato finale. Può darsi che la vostra imperdonabile audacia faccia capo ad un esito fortunato, per qualcuno almeno e per qualche tempo. Non parlo che per un'induzione tutta mia, e non ho neppure il diritto di spiegarvi più esplicitamente il mio pensiero o la mia ubbia, come credete. Un avvertimento preciso potrebbe parere una nota falsa e lasciar poscia un'eco stuonata. Ora bisogna che vada. Mi scriverete di tutto ciò?
— Ben inteso. Vi dirò dei nostri progressi, dei miei progetti... Sapete... il marito di Marina! Il coronamento dell'edificio!
— Ah! — diss'egli vivacemente: — Ma certo; avete da farvi perdonare il fiasco di quindici giorni or sono. Do la mia speciale approvazione a questo progetto. Fate, per amor del cielo, ch'egli sposi al più presto la vostra bellissima, ammirabile amica.
— Oh! — disse Elisa ridendo — vi ci ho colto. L'ammirate ora,