L'ultima primavera. Memini
pratica di invitare la giovane vedova a venir ad abitare in provincia presso di lei, allo scopo, diceva ella, di sconcertare le cattive lingue.
Ma la contessa Elisa non si sentì il coraggio di pagare a sì caro prezzo lo sconcerto delle cattive lingue. E seppe tanto bene e con sì amabile dignità viver sola a Firenze, nella sua bella casa, ricevendo come aveva sempre fatto, occupandosi d'arte, di letteratura, di beneficenza, che le cattive lingue, dopo aver provato a pungere, a portar via un po' di pelle a quella purissima riputazione, dovettero smettere. A nessuno venne mai la più lontana idea di poter far la corte a quella signora così gentile e così austera. Alcuni ebbero bensì, nei primi tempi, un'idea assai migliore, quella cioè di chiederla in moglie, ma ella ricusò sì pertinacemente che gli aspiranti desistettero. Uno di essi, più stizzito degli altri per la toccata ripulsa, avendo detto che la contessa Elisa era una donna fredda, egoista e per di più, di una pedanteria insopportabile, molte persone trovarono comodo di adottare sul conto di quella signora un'opinione già fatta, invece di darsi la briga di formarsene una propria e così fu assodato che la Serramonti, con tutte le sue qualità, non era per nulla ciò che si chiama una persona attraente. E zia Balbina scrisse, ad alcune sue amiche di Firenze che le avevano chiesto ragguagli sulla nipote:
«Un angelo, mie care, una donna sublime, ma ostinata all'estremo, e di una deplorevole riluttanza a seguire le buone e pratiche influenze delle persone esperimentate. L'ho sempre detto a quella cara Elisa, ch'essa abita un pochino nel mondo della luna. Fortunatamente per lei, ha circa quarantamila franchi di reddito suoi, per cui in complesso può vivere come le pare e piace, e questo è senza dubbio un gran conforto, nella sua difficile e delicata posizione.»
Oh! un gran conforto, senza dubbio. E di quel conforto ella si giovava certamente, sopratutto facendo molto bene attorno a sè e soddisfacendo i suoi gusti raffinati di artista. Viveva molto quieta, sentendo i vantaggi della propria posizione, colla calma serena che le dava il convincimento, o giusto od erroneo, di essere entrata nella fase definitiva della propria esistenza.
Vestiva molto seriamente, con severa eleganza, e non si tingeva i capelli, benchè fossero qua e là irregolarmente striati in bianco; il che, chi nol sapesse, è la più odiosa maniera d'incanutire che possa capitare ad una signora... Ma la forma della testina era tanto graziosa, e in quel momento per l'appunto, mentre stava leggendo la lettera di Tecla, la contessa Elisa, col volto dipinto dall'emozione intima di quella lettura, colla persona inconsciamente atteggiata ad una espressione veramente artistica di pensieroso abbandono, nella luce e nell'ambiente tanto omogeneo di quell'ora, formava un quadro gentile, pieno di una poesia fresca e squisita e davanti al quale nessuno certo avrebbe pensato di chiedere: Ma quella donna, quanti anni ha?
Oh, quella lettera di Tecla! E da tanto ella non scriveva più! L'assidua corrispondenza dei primi anni della loro separazione era venuta meno, naturalmente, col volgere degli eventi. A rari intervalli avevano nuove una dall'altra. Ma in questa lettera tutta l'antica confidenza tornava in campo, tutta la tenerezza un po' sgomentata di Tecla, le sue angosciose apprensioni materne si rivelavano nella fiducia di un appello caldo e malinconico. Elisa si sentiva il cuore riboccante di memorie e di simpatia e dovette recarsi il fazzoletto agli occhi per poter proseguire nella lettura del seguente brano:
«Il verdetto del dottore non mi ha sorpresa; da tempo avvertivo i prodromi del male che, affrettando ora il suo corso, farà in breve di me una povera inferma, inchiodata, Dio sa per quanto, su un seggiolone. Pure, non desidero di morire... Solo per lui, s'intende.
«Tu sai, cara, ciò che Roberto fu sempre per me. Non fosti madre, ma il tuo cuore è degno di essere un cuore di madre, e perciò sento di poterti dir tutto e chiederti tanto pel mio figliuolo.
«Premetto che, di tutto, la colpa è mia. Mia l'ostinazione di non volerlo allontanare da me. Cercai d'isolarlo da ogni fonte di contaminazione, sognando, follemente delusa anche dalla pieghevolezza del suo carattere, di poterlo tener sempre così, al riparo di tutto. Non seguì i corsi pubblici, fu educato privatamente. Credevo che avrebbe facilmente spiegata qualche attitudine ad una scienza qualsiasi, che si sarebbe volentieri occupato della gerenza del suo patrimonio. Se avesse spiegata qualche passione pei viaggi, l'avrei assecondata, accompagnandolo. Che vuoi? non seppi sviluppare in lui delle tendenze attive, e mi coglie a volte un acuto rimorso, poichè i risultati del metodo da me tenuto non sono certo soddisfacenti. Questa esistenza stagnante di piccola città di provincia, l'adulazione degli inferiori, l'esempio del più dei suoi pari, tutto insomma ha contribuito, non già a renderlo cattivo, nè corrotto... oh no!... questo sarebbe impossibile, col fondo aureo del suo carattere e col bene immenso che vuole a me; ma... egli è nulla... non fa nulla... e... ahimè, ha già soggiaciuto a qualcuna fra le più volgari seduzioni dell'ozio. Ora ciò è finito, la Dio mercè, ma temo per un altro lato, e il ricordo di altre, di antiche sofferenze di quel genere mi tiene in uno stato di incredibile agitazione.
«In una piazzetta remota della nostra piccola città abbiamo un sucido cafferuccio, nel cui retrobottega, in mezzo ad un crocchio di giocatori di professione, i giovani delle migliori famiglie sogliono passare lunghe ore del giorno e della notte. Puoi immaginare le angoscie mie da quando so che Roberto frequenta quel ritrovo, e quando gli leggo in volto, nel pallore delle scomposte fattezze, la traccia di quelle emozioni, quelle che hanno trascinato, perso il padre suo... Ultimamente, ha subito perdite assai gravi. Ne ringrazio Iddio, e approfitto di un momento di disgusto da parte di Roberto per tentare un rimedio eroico. Cosa mi costa... ah! nessuno potrebbe dirlo! Ma non importa, se fu mia la colpa, la penitenza è giusta e deve esser mia!
«Allontano mio figlio da casa sua, da me; lo mando solo, perchè non posso seguirlo, in un centro più vasto, più attivo, ove egli abbia bisogno d'essere qualcosa per essere qualcuno. Voglio che vada in società, bramo che prenda moglie. Avrei potuto dargliela qui, ma preferisco che i legami abbiano altrove un centro di richiamo. Poi, le signorine nostre ricevono anche oggidì un'educazione troppo ristretta e subordinata alle influenze religiose e politiche. La sposa di Roberto deve avere delle vedute proprie, un carattere deciso, ingenuo e una certa cognizione della vita. Non ho esigenza alcuna personale, o fuori di quelle che naturalmente importano la nostra posizione sociale. Mi basta che gli piaccia, che sia d'illibata condotta, di buona famiglia. Della dote non m'importa, è ricco abbastanza.
«Mia cara Elisa, mi hai compresa, nevvero? Accetti la missione che ti do?... Vuoi far le mie veci presso mio figlio, assumere il pensiero del suo avvenire e della sua felicità?
«Ho pensato a lungo; nessuno ho trovato più adatto di te. Il tuo senno, la tua posizione, l'alta stima di cui godi in società, le tue relazioni, tutto mi rassicura, tutto mi affida. È il mio solo conforto, nel dolore della separazione, il pensare che mio figlio è affidato a una donna come te. Fa per lui ciò che puoi, fa ch'egli trovi in te un'amica che gli tenga le veci di sua madre. E questa t'abbraccia con tutta l'anima, ti ringrazia e ti benedice.»
Elisa non leggeva più da qualche minuto. Ma ancora, sul suo dolce occhio castano, si stendeva un lieve umidore. Quanto doveva aver sofferto Tecla per giungere a quella risoluzione! E quanto era lei in quella confessione, come appartenevano al suo carattere quell'impeto d'abnegazione materna, quella rinunzia, quella cieca fede nell'amicizia di una donna!... Oh no, Tecla non s'ingannava, Tecla aveva fatto bene a rivolgersi a lei con quella missione, con quell'appello al suo sentimento materno... E veramente ella la intendeva benchè non fosse mai stata madre!...
Fece un piccolo esame di coscienza, rapido, sincero. — Sì... — pensò poscia umilmente — posso tentare. Farò quello che potrò...
* * *
Il martedì, pranzo di amici dalla contessa Elisa Serramonti. Cinque invitati, uomini ed attempati. Marcello Plana, quand'era a Firenze. Il professore Starni, il famoso naturalista. Il commendatore Gerra, l'autore del famoso quadro: «La battaglia di Hastings e il rinvenimento del cadavere del re Aroldo.» Poi il principe di Cannera, lo straricco siciliano, sì modesto, sì benefico, e la cui colossale filantropia è più che sufficiente a fargli perdonare i suoi versi, mentre la sua prosa storica si difende da sola più che onorevolmente. Il conte Guaralli, quel bel vecchio poeta dalle ispirazioni sì caste. E quel tipo sì strano, sì nordico ed orientalista, Maurizio Parri.
Questi