L'ultima primavera. Memini
in ferro battuto, una meraviglia di squisito disegno e di quasi aerea esecuzione.
Il marchese Fedimari contemplava per l'appunto la catena del lucernario quando la piccola comitiva fece irruzione nella chiesetta. Si voltò naturalmente, e chiamato con un cenno da Marcello Plana, venne presentato alle signore. Prima alla contessa Nardi, poi a Donna Marina Negroni.
Questa e lui si guardarono, rapidissimamente. Entrambi sapevano. Egli pensò: No. Ella pensò: Sì.
La contessa Elisa gli parlò tosto di Brescia, di un'amica sua bresciana che... combinazione strana, era per l'appunto cugina di casa Fedimari. Poi mossero tutti assieme a visitare la chiesetta.
Maurizio Fedimari era un giovane di aspetto fine e molto serio. Intelligente, studioso e di tempra eminentemente sensibile, aveva cercato, nell'assorbente influenza degli studi artistici, una distrazione benefica e quasi un rifugio contro l'eccessiva suscettività nervosa del suo temperamento ed il malessere continuo che formentavano in lui la coscienza di una quasi insana timidità. Appunto per reagire contro questa, si costringeva talvolta a prendere delle grandi risoluzioni. Così era venuto nel divisamento di prender moglie e aveva detto a Marcello Plana: — Trovamela tu — in una specie di accesso di coraggio disperato. Si riservava, naturalmente, la conferma della scelta dell'amico. Per tutte le circostanze secondarie, gli aveva data carta bianca.
Povera Marina... Ella faceva serenamente, correttamente, il dover suo. Ammirava con perfetta misura quanto c'era da ammirare nella cappella, ascoltava con doverosa simpatia le elaborate spiegazioni del giovane. La timidità naturale di Fedimari era sopraffatta colà dall'assoluto bisogno di un contegno sciolto e il terrore del ridicolo gli faceva trovare delle forze ignorate. Non parve nè impacciato, nè inferiore a sè stesso, benchè soffrisse alquanto nell'intimo suo.
Mentre egli parlava, Marina si ricordò della sua lezione di sorrisi. Uno dopo l'altro, con perfetta armonia di evoluzione, vennero sul suo volto e passarono. Ella ebbe un'attenzione sostenuta, una dignitosa personalità di apprezzamento. Non esagerò l'entusiasmo, ebbe solo alcune parole di fino commento. Quando credette giunto il momento opportuno, si rimosse alquanto dal gruppo e andò ad inginocchiarsi su un banco per farvi una breve preghiera. Ciò fece senza ostentazione di sorta, con una semplicità e una distinzione di mosse veramente mirabili. La figura spiccava, magnifica, sul banco isolato. La mossa, la posa, quella bella testina abbandonata per un istante fra le mani finemente inguantate, tutto fu artistico, nobile, riescito. E veramente in lui fu colpito l'artista. Ma Maurizio Fedimari restò freddo, ed egli ebbe degli strani pensieri d'indole curiosa e alquanto negativa, mentre la povera Marina diceva silenziosamente la sua piccola preghiera, appiè della Madonna bofficiona.
Ognuno, del resto, faceva doverosamente la sua piccola parte in quella piccola commedia crudele. Anche la Contessa fu all'altezza della situazione. Si era imposta una disinvoltura grande e bisognava sentire come parlava del più e del meno, di Luca della Robbia e di Mino da Fiesole... Citò Winckelmann tanto a proposito, quella cara donnina, che Maurizio Fedimari ne rimase incantato. Ma con tutto ciò il core le batteva forte e un momento, mentre Fedimari si trovava alquanto in disparte, con Marina, intento a farle osservare il delicato lavoro della catena, ella chiese in fretta, a bassa voce, a Marcello Plana:
— Ebbene, che vi pare?
Marcello si strinse alquanto nelle spalle.
— Eh! bisognerà sentire.
— Quando? Verrete stasera, nevvero? Mi direte... No, caro Plana, scusate, ma non sono del vostro parere. Della scuola, forse, di Luca. Ma sua, non credo.
Fedimari e Marina erano tornati lentamente indietro, giusto in tempo per udire l'opinione della Contessa su Luca della Robbia. Non avevano l'aria molto animata.
La visita continuò e si compì secondo il programma. I due signori accompagnarono alla carrozza la Contessa e la signorina. E lì, proprio all'ultimo, la contessa Elisa si fe' un coraggio da leone e annunziò al marchese Fedimari che riceveva il sabato, dopo le cinque. Se ne rammentasse, se rimaneva a Firenze.
Il giovane accolse l'invito colla più doverosa riconoscenza. Ma parlò vagamente di certi progetti per Napoli. Era indeciso. Certamente, se non partiva, approfitterebbe col massimo piacere.
Marina si nicchiava nel suo cantuccio del legno, disponendo con grazia infinita sulle sue ginocchia l'elegante copertina foderata di pelliccia. La persona era ben riparata, ma un subito freddolino si fece strada sino al suo cuore. Il più squisito dei sorrisi, il sorriso della fine, non lasciò le sue labbra. Scomparve a tempo debito, quando non occorreva più, ma si cacciò dietro una effulgenza di serenità mirabile, mentre la giovane parlava, con sentita compiacenza, delle bellissime cose che aveva testè vedute.
La Contessa invece non era niente affatto entusiasta. Sempre così, quel Plana. Credeva sempre di scovare dei tesori inediti... e poi... Quella Madonna?... Della scuola di Luca... se pure! E il Trittico! Ritoccato atrocemente, rovinato addirittura.
Marina scoteva il capo placidamente. — Ma no... non mi pare. Mi sono piaciuti tanto quegli affreschi. E il luogo era così originale!
— Originale davvero! — ribattè la Contessa con quanto malumore poteva tradire la sua dolce fisonomia.
Sospirò, poi tacque, e Marina rispettò il suo silenzio. Ella pure aveva voglia di tacere. Pensava che anche quella era andata male. Lo sentiva... n'era sicura. Quante?... Non le contava più!
Sulla discesa i cavalli trottavano, Marina abbandonava la bella persona alle lievi scosse della carrozza, e pensava che la china degli anni si scende così, ch'ell'era stanca, inesprimibilmente stanca di... tante cose. E ogni tanto si presentava una probabilità, qualche cosa che pareva la fine... ma, sul punto di concretarsi, spariva. E il tempo passava...
S'era levato un venticello malinconico che se la pigliava colle ultime foglie, scordate sugli alberi dal suo predecessore. Ella guardava, pensando ancora: Così! Ma aveva ripreso a chiacchierare quietamente colla Contessa.
Andarono alle Cascine, ma il tempo inclemente aveva trattenuti in città molti dei soliti frequentatori. Poche carrozze al Piazzone. Le due signore non si fermarono molto alla passeggiata. La Contessa aveva premura di essere a casa e di chiedere a Plana come fossero realmente andate le cose. Poichè ella era sinceramente affezionata a Marina, e avrebbe voluto vederla maritata e fuori di quella benedetta casa d'Accorsi!...
Ve la ricondusse, cionullameno, e la giovane, congedatasi affettuosamente dall'amica, scomparve nel vano del portone. Elisa le tenne dietro, sin che potè, collo sguardo.
— Povera ragazza! — sospirò.
— A casa! — disse poscia rapidamente al domestico che attendeva gli ordini.
III.
La casa della contessa Elisa non era un palazzone. Un bel fabbricato signorile di stile moderno, nicchiato, con una leggiadra modestia di villa, in mezzo ad un giardino tutto cintato, il che lo isolava piacevolmente dalla via e dalle case adiacenti. C'erano molti sempreverdi, molti fiori e le mura erano quasi tutte ammantate di edere, pareva d'essere in campagna. Ciò piaceva tanto alla contessa Elisa, e i suoi fedeli salivano volentieri quella piccola scalinata dell'atrio, coi grandi vasi bleu di maiolica di Ginori, cogli arum sì belli e sì alti e le macchie di begonie e le belle lampadine pensili coll'edere sì verdi, e il capilvenere sì minuto, per poi penetrare in quella piccola fuga di sale arredate semplicemente, ma con molto gusto, e andar finalmente a parare in quell'amore di salottino in broccatello antico; tutto mezze tinte e cose gentili, e tocchi femminilmente artistici di addobbo e d'adornamento.
Appena scesa di carrozza, Elisa chiese al cameriere: — È venuto don Marcello?... — E udito che sì, mosse frettolosa a incontrarlo dove sapeva che l'avrebbe trovato.
Egli era infatti nel salottino ultimo. Appena udì quel passetto frettoloso, depose il volume che stava leggendo e si alzò, appena in tempo per ricevere, in piedi, la buona stretta di mano dell'amica.
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