La Repubblica di Venezia e la Persia. Berchet Guglielmo
unito con alcuni Turchi che andavano alla Mecca, dai quali poche miglia fuori di Aleppo si dipartì fingendo di avere perduta la borsa, e così avendo potuto ritornare in quella città, prese il cammino della Persia. Passato l'Eufrate, egli entrò nel paese di Uzunhasan, e presentatosi a quel re, fu accolto amorevolmente ed udito con attenzione.
Pochi giorni dopo l'arrivo in Persia dell'Ognibene vi giungeva Giosafat Barbaro, laonde Uzunhasan incaricava l'Ognibene di ritornare tosto a Venezia, e di esporre alla signorìa, ch'egli era re della propria parola, e che nella prossima primavera avrebbe allestito un poderoso esercito.
La relazione dell'Ognibene fu assai grata al Consiglio dei Dieci, che lo premiava colla nomina di massaro all'ufficio delle Rason vecchie, collo stipendio annuo di ducati 400[50].
Anche la relazione del viaggio e dell'ambasciata in Persia di Ambrogio Contarini fu pubblicata nelle citate collezioni. Partitosi quell'oratore da Venezia a' 23 di febbraio 1473, andò per la via di terra a Caffa, ove giunse ai 26 di aprile, passando per Norimberg, Potsdam e la Russia bassa. Imbarcatosi sul mar Nero, si recò alle foci del Fasi al 1º di luglio, e per la Mingrelia, la Georgia e parte dell'Armenia, giunse al 4 di agosto nella città di Tauris.
Ma siccome il re di Persia trovavasi in Ispahan, il Contarini si diresse a quella volta, ove incontrò Giosafat Barbaro che lo seguiva in qualità di legato della repubblica.
Nel giorno 4 di novembre 1474 il veneto oratore si presentò ad Uzunhasan ed offerì le sue credenziali. Esposta la commissione avuta dal senato, ebbe affettuosissima accoglienza, ma assai breve ed ambigua risposta. E ritornato poi colla corte in Tauris, gli fu commesso da quel re di partire per Venezia, e di recare la notizia che egli era pronto a far la guerra. Fu il Contarini regalato di due vesti, di un cavallo e di poche altre cose, e fu incaricato di portare alla signoria alcune spade e turbanti.
Nel 28 di giugno 1475, quantunque convinto che le promesse di Uzunhasan difficilmente sarebbero state mantenute, il Contarini si licenziò da quel re, e per la via del Caspio e della Tartaria si diresse a Venezia.
Il viaggio di ritorno riescì al veneto legato oltremodo faticoso, avendo dovuto per terre barbare ed infestate, viaggiare senza o con pochi danari. Egli portava indosso una casacca tutta squarciata, foderata di pelli d'agnello, una triste pelliccia, e un berretto pure di agnello. Passato il gran deserto dell'asiatica Sarmazia, arrivò in Moscovia, e presentatosi a quel duca, fu assai bene accolto e regalato; quindi per la Lituania, la Polonia e l'Allemagna giunse a Venezia il 9 di aprile 1477, e riferito in senato l'esito della sua missione, corse a ringraziare Iddio di averlo preservato da tanti pericoli e di avergli conceduta la grazia di rivedere la patria.
Colla morte di Uzunhasan terminava per Venezia l'ultima speranza di appoggio; laonde nel 1478 la repubblica fermò pace colla Turchia, e pose fine ad una lotta che durò sedici anni, e che avrebbe potuto vendicare il 1453, in cui compievasi la gran vergogna della cristianità, e liberare l'Europa da una causa incessante di perturbazioni e di guerre.
II.
La repubblica di Venezia però non cessava di considerare con grande interesse le cose persiane, dacchè a quella parte stavano ancora rivolte le sue speranze, nel quasi totale abbandono dei principi cristiani.
Sembra che il segretario veneto Giovanni Dario, spedito nell'anno 1478 alla Porta per negoziare la pace, avesse poi incarico nel 1485 dal bailo Pietro Bembo, di recarsi nella Persia, per attingere notizie sulla condizione di quel regno sconvolto dopo la morte di Uzunhasan, e sulla possibilità di una comune riscossa. Due lettere in fatti si conservano del Dario [Documenti XVII e XVIII], le quali però narrano solamente l'accoglienza ch'egli ebbe nel campo persiano, e quella fatta agli ambasciatori dell'Ungheria e dell'India, che eransi pure in quel tempo recati colà.
Allorquando poi il valoroso Ismaìl, capo della setta credente in Alì, detta dei Ssufì
Un gentiluomo di Costantinopoli, abitante in Cipro e suddito veneto, Costantino Lascari, spedito a questo fine nella Persia, lesse in senato al suo ritorno in Venezia nel 1502, una preziosa relazione del sufì [Documenti XIX e XX], dalla quale la repubblica, se ricavò importanti notizie delle vittorie e progressi persiani, dovette però convincersi non essere possibile di ristorare allora l'antica lega con Ismaìl, laonde mancandole eziandio i soccorsi chiesti alla Francia ed al Portogallo, conchiuse la pace colla Turchia, che fu giurata il 14 dicembre 1502 dal sultano, e il 20 maggio 1503 dal doge.
Non ismettevasi tuttavolta in senato il pensiero, che fu poi la costante politica tradizionale della repubblica, di studiare le occasioni opportune, per frenare la prepotenza ottomana, e per rilevare in levante la supremazìa politica e commerciale dei Veneziani.
I dispacci dei baili a Costantinopoli riportati dal Sanudo, e quattro relazioni che in quei preziosi diarii sono pure conservate inedite, fanno di ciò piena testimonianza. La prima è una deposizione del nunzio Dell'Asta fatta alla signoria nel dicembre 1501, intorno al nuovo profeta Ismaìl[52]; la seconda una relazione 7 settembre 1502 del luogotenente di Cipro Nicolò Priuli, sui progressi del sufì e della sua setta[53]; la terza una deposizione fatta nell'ottobre 1503 intorno ai successi persiani, da un Moriati di Erzerum spedito appositivamente in Tauris dai rettori di Cipro[54]; la quarta finalmente è una lettera di Giovanni Morosini da Damasco del 5 marzo 1507[55], la quale narrando con ogni possibile esattezza le lotte del sufì contro Alidul e la Turchia, rappresentava al senato « quello essere il momento opportuno di cospirare d'accordo fra i principi cristiani e la Persia, nella santissima impresa di scacciare il Turco d'Europa ». La lettera del Morosini termina col seguente ritratto dello shàh Ismaìl.
« Il sophi è adorato et è nominato non re nè principe, ma sancto et propheta: è bellissimo giovane senza barba, studiosissimo et doctissimo in lettere, dicono aver con sè tre preti armeni, i quali per otto anni continui sien stati suoi precettori, et non lascivo al solito dei Persi, homo de grande justitia et senza alcuna avidità, et molto più liberal de Alexandro, anzi prodigo di tutto, perchè come gli vien el danaro subito lo distribuisce in modo che el par un Dio in terra; et come ai templi se fanno offerte si offeriscono a lui le facultà, et hanno de gratia che tanto si degni de acceptarle. La fede veramente che el tien no se intende; ma se pol conjetturare che el sia più presto cristiano che altro, persuadendo li popoli che Dio vivo che è in cielo li governa. Vive con amor religioso et si contenta di quanto ha minimo et privato homo. L'ha tamen qualche schiava et anchor non legittima mogliera; nol beve vino palese nè occulto, ma qualche volta el mangia certa herba che alquanto aliena, et allora commette qualche severità; et tamquam sanctus par de divination, perchè mai si consiglia con alcun; et per questo tutti crede che el sia ad ogni sua operation divinitas in ispirito. El tien una gatta sempre con lui, et guai a chi fasse alcuna offension a quella.... ».
Questo valoroso principe fondatore della dinastìa dei Sufiani, non mostrava minore desiderio del veneto senato, a stringere l'alleanza, e ad unire le proprie armi a quelle della repubblica.
Scriveva in fatti il console a Damasco Bartolomeo Contarini nel novembre dell'anno 1505[56]: essere a lui venuto un chasandar del Caramano con una lettera del sufì di Persia, scritta in lingua agemina[57], al soldan dei Veneziani, colla quale narrando le conseguite vittorie gli partecipava il suo grande amore e la sua speranza di presto incontrarsi con lui.
Questa lettera fu ricevuta a Venezia nel gennaio 1605 [Documento