I suicidi di Parigi. Ferdinando Petruccelli della Gattina
vi mise ostacolo.
Gli eredi non trovarono becco di quattrino di quella fortuna.
E si disse, che la vedova avesse rubato i parenti di suo marito; che il dottore le avesse tenuto il sacco nell'operazione.
Tutto codesto, nel fondo fondo, era presso a poco falso. Madama Thibault non aveva sottratto che un centinaio di mille franchi, tutt'al più.
Nondimanco, ella menava una grande esistenza!
Per giustificarla in un modo meno sgustevole, ella lasciava correre, senza troppo contraddirli, gli altri rumori sull'origine di sua ricchezza. La verità però l'è la seguente:
Madama Thibault aveva un magnifico appartamento nella via di Provence. Attiguo al suo appartamento, eravi un piccolo alloggio ove dimorava Sergio di Linsac. Se si fosse spostato la libreria di costui, sarebbesi scorto, dietro questo mobile, una piccola porta praticata nel muro, la quale aprivasi addirittura in un armadio a specchi, nell'appartamento vicino, nella propria camera da letto di madama Thibault. Augusta poteva amar così il poeta a suo comodo, senza che il mondo ne avesse giammai potuto indovinar nulla e neppur sospettarlo.
Bisogna però soggiungere che Sergio di Linsac non era iscritto nel bilancio di rendita di madama Augusta Thibault. Ella lo amava di cuore, lo amava dei sensi e la partita saldavasi così.
Ma la buona dama non si contentava della diaria un po' magrina del poeta.
Alla sommità della via di Clichy, eravi a quell'epoca una gran casa, con un'immensa corte, nel fondo della quale prendeva origine una scalinata di servizio. La gabbia della scala nascondeva quasi una porticina a vetri colorati, che non aprivasi mai, sporgendo in un piccolo giardino, affittato allora al proprietario di una palazzina dietro la casa. La porta a vetri era dunque interdetta.
Madama Thibault aveva affittato il quarto piano di quella casa, per allogarvi una povera vecchia paralitica sua parente, a cui portava affetto. E come la signora Thibault bruciava di carità a mo' delle divote, ella recavasi colà due o tre volte la settimana, onde largir sussidii alla congiunta, e restava a favellare a lungo con lei.
A lungo, diceva ella, ripetevano altri. In realtà madama Thibault non vi si tratteneva che cinque o sei minuti. Poi, discendeva con cautela, apriva la porticina vetrata, di cui possedeva la chiave, e si trovava nella stufa della palazzina—l'entrata principale della quale era nella via di Amsterdam, n. 97.
Quella palazzina apparteneva al principe di Lavandall.
Questi era iscritto sul bilancio d'introito di madama Thibault ad una quota variante, tra i 90 ai 100,000 franchi, l'anno.
Quando madama Thibault riesciva, verso le cinque, dalla palazzina del principe, e traversava il cortile della casa della via di Clichy, i portinai, se per avventura sbirciavanla dal loro covo, sclamavansi:
—La santa donna! quante consolazioni reca dessa all'inferma!
—Ed a voi, eh!—madama Pillet?—soggiungeva la cuoca del secondo piano.
Il signor Pillet degnava sorridere.
Quelle visite occupavano un tantino l'ozio dei lunghi giorni di madama
Thibault.
Ma le notti erano altresì così lunghe, così solitarie, così silenziose! Non piacendole ricevere visite in casa, se ne andava al teatro od a far visita altrui.
Madama Thibault aveva un intendente che avrebbe sconcertato tutti gli etnografici del mondo, se si fossero avvisati di classificarlo e determinare a quale nazione appartenesse. Costui non aveva tipo, e parlava tutte le lingue come sua lingua nativa. Forse, rimuginando bene, noi avremmo potuto riconoscere, sotto l'epiderme di babbo Timoteo, l'antico capo degli zingari di Nicastro, lo zio Tob. Ma noi non abbiam tempo, in questo momento, di occuparci di codesta scoverta, che aveva fatto tanto onore alla scienza del dottor di Nubo.
Due mila franchi l'anno di salario, nudrito, vestito, alloggiato, ed altri piccoli accessori, facevano del babbo Tob, o Timoteo, un miracolo di fedeltà. Per lo manco, lo si diceva. La signora Thibault, del resto, non se ne lamentava. Il babbo Tim o Tob era discreto come i geroglifici della piramide di Louqsor.
Questo intendente l'accompagnava.
Si vedeva dunque madama Thibault in una baignoire, fino al secondo atto—talvolta fino al terzo, se la commedia l'interessava. Poi, nell'intermedio, l'intendente giungeva, gettava una pelliccia sulle spalle della padrona, discendeva, apriva lo sportello di una vettura che l'aspettava alla porta del teatro. Augusta entrava. L'intendente ordinava al cocchiere: Andate.
Egli, l'intendente, se ne iva per i piccoli fatti suoi.
E madama Thibault?
La degna dama bazzicava la soirées, faceva visite—diceva ella, diceva altresì l'intendente. In realtà, la signora Thibault recavasi in una deliziosa piccola palazzina, fra due giardini, nella via Neuve-des-Mathuarins—il paradiso del signor Alberto de Dehal. Ella restava quivi presso a poco fino alle due del mattino, dopo cui, il babbo Tim o Tob—che scaldavasi al camino, o passeggiava, o dormiva nell'anticamera fin dalla mezzanotte—le apriva di nuovo lo sportello del coupé e rientravano in casa.
Il signor Alberto Dehal, anch'egli figurava nel bilancio di entrata della bella vedova, per cinquanta o sessanta mila franchi l'anno—tutto compreso.
Con un'esistenza così piena e così sapientemente combinata, la signora Thibault passava nel mondo per una donna irreprovevole. Ella era patronesse di opere pie nella sua parrocchia. Questuava per i poveri alla messa cantata della domenica. Riceveva le visite officiali del signor curato, della società divota, e, quando ella vi consentiva, anche la buona società, la borghesia. Perfino qualche membro dell'aristocrazia avventuravasi a cacciare in quelle steppe. Per lo meno, codesto dicevasi a proposito del principe di Lavandall. Imperciocchè, di certi signori stranieri, di certi principi italiani, conti polacchi, baroni tedeschi, dicevasi, nè più nè meno, ch'essi bazzicavano la casa della vedovina schiettamente per sposarla.
Lo scudo non è desso forse la migliore delle armi?
Il ballo cui Augusta dava—ella non ne dava che due soli nella stagione—fu brillante.
I lions della festa furono, è inutile dirlo, il principe di Lavandall e Regina—l'uno per la sua colluvie di decorazioni; l'altra per la sua bellezza.
Il dottore presentò il principe a sua nipote—E costei ed il principe restarono a chiacchierare insieme un venti minuti.
Lavandall fu abbarbagliato dello spirito penetrante e fine della giovane; del tatto di lei ad indovinar tutto; della di lei abilità di tutto dire o di tutto dissimulare; della solidità del di lei giudizio e della chiarezza con cui esprimeva ciò che la voleva dire.
Quando il principe la lasciò, per discrezione, Alberto Dehal—che assisteva anch'egli a quel ballo e che l'aveva covata degli occhi senza volgerle la parola, come fatto aveva all'ambasciata d'Austria, le si accostò.
—Madama, vorreste farmi la grazia di un giro di walzer? chiese egli con voce commossa.
—Volevo riposarmi, signore—rispose Regina—ma a voi non posso rifiutare.
Levossi.
Alberto la prese fra le sue braccia.
Era estremamente pallido; si sentiva quasi svenire sotto il peso di quella donna, cui aveva tanto amata e cui amava ancor tanto! Si lanciarono alla danza.
—Madama—le sussurrò Alberto all'orecchio—non mettete giammai più il piede in questa casa, e diffidate.
—Di grazia, di che?
—Questa casa vi contamina. Voi siete in una gabbia di tigri. Partite all'istante. Non vi tornate più, e silenzio… silenzio assoluto!
Egli condusse Regina al suo posto e partì.
Regina rimase pensierosa. Poco dopo lasciò il ballo anch'ella. Non disse ad alcuno