I suicidi di Parigi. Ferdinando Petruccelli della Gattina
—Mille grazie. Io mi riformo. Metto poste alla cassa di risparmio, per la vecchiaia—come le cuciniere. Chi sa che può avvenire? Prendi dunque il bruno del passato, e rassegnati.
—Io mi tedio a perirne.
—La gloria non ti basta, dunque, eh!
—La gloria è del sesso femminile, dottore. E poi, dessa è a mio marito.
—Non vi siete voi dunque mica maritati col regime della comunità?
Egli ti celebra pertanto, nei suoi romanzi.
—Ebbene, sì. Egli mi à ultimamente collocata in un soffitto. La sua Regina è bella… ma abita il sesto piano sul mezzanino. Io l'avrei preferita in un palazzo. Mi capite?
—Il sesto piano è l'olimpo dell'amor vero. Non l'abita chi vuole.
—Si ama benissimo anche al primo piano, m'immagino.
—Ami tu tuo marito?
—Che domanda! l'avrei sposato senza ciò?
—Un milione di gaudi, allora. Un tugurio… ed il suo cuore!…
—E poichè vi siete, soggiungete: e sessanta mila lire di rendita!
—Io conoscevo un certo Svedese che ne possedeva trecento mila.
—Codesto, è storia antica… passiamo.
—Ne conosco che ne ànno cinquecento mila.
—Codesto è un sospiro di vedova… passiamo ancora.
—Vi auguro il buon giorno, signora contessa Sergio di Linsac.
—Quando verrete voi a pranzo da me—a pique-nique, bene inteso!
—Non ne so nulla. Non ne ò il tempo. Gl'inviti mi soffocano.
—Mettetevi al regime omiopatico.
—Io sono allopatico, carina—e non appostato—quantunque ciò sia alla moda. A proposito, se incontrate per avventura la gitanella in questione, ditele, che vi è per lei da Delille una veste e certi pizzi. Che vada a reclamarli. Inoltre, ditele che io vado al ballo dell'ambasciata d'Austria il 10 corrente, e che quella sera lì, io resterò in casa fino alle 11 pomeridiane, aspettando una vettura che venga a prendermi.
—Voi volete dunque pervertirla?—sclamò Regina, baciando il dottore sulla fronte. Io non porto mica di tali messaggi. Addio. O' fame, e vado ad asciolvere in casa mia.
—A vostro comodo, signora Alberto Dehal… ah! scusa! signora contessa di Linsac.
Regina fece un segno di minaccia col suo dito, scintillando di un sorriso che illuminò la camera.
Il dottore la vide partire ed un ghigno spaventevole si stemperò sul suo sembiante. Poi prese un foglietto e scrisse:
«Trovata. Al ballo dell'ambasciata d'Austria.»
Piegò quindi la lettera e vi mise l'indirizzo: «Al signor principe di
Lavandall. Rue d'Amsterdam, n. 97.»
Si vestì ed uscì.
IX.
Eva ritorna all'Eden.
—Vittoria su tutta la linea, mio caro!—gridò Regina, rientrando e saltando al collo di suo marito.
—Che dunque?—sclamò costui.
—Lo zio à piegato. L'ò portato via di assalto.
—Ed e' à lasciato fare?
—Non mica. À resistito, il vecchio ostinato, à risposto di becco ed unghia; ma infine…
—Egli à ceduto?
—Completamente. La pace è firmata. Egli è stato per fine gentile.
—Al postutto che cosa gli costa codesto.
—Codesto?… gli costerà almeno sei o otto mila franchi, per il momento.
—Vale a dire?
—Vale a dire, ch'egli mi à annunziato esservi per me da Delille una veste e dei pizzi. Ora, poichè vi sono, non vo' fare le cose a mezzo.
—Ed è lui che paga?
—Bene inteso.
—Senza condizioni?
—Una sola.
—Me lo immaginavo. Quale dunque?
—Che il 10 gennaio io vada a prenderlo in carrozza per condurlo al ballo dell'ambasciata d'Austria.
—Addobbata di quell'abito e di quei pizzi in discorso?
—Lo penso bene.
—Per farne mostra innanzi ad una turba di stranieri, e provar loro, che in fatto di gusto, la Parigina è la prima donna del mondo?
—Il dottore è naturalista: egli ama provare con i fatti.
—Ebbene, mia cara, ne sono incantato.
Regina lo abbracciò ancora una volta.
—Ma tu sarai meco—disse ella.
—Uhm! codesto è un altro paio di maniche—borbottò Sergio.—Io sono in delicatezze con l'Austria.
—Come ciò?
—L'Austria è una vecchia civetta che vuol darsi l'aria, i gusti, l'andazzo, le passioni di una giovinetta. Ora, nella mia qualità di giornalista dell'opposizione, mi occorse più di una fiata provarle, che i suoi denti erano falsi; i suoi colori, belletto; i suoi diamanti, strass; i suoi addobbi, un vecchio resto di rivendugliola di toilette; la sua fierezza, burbanza scenica; la sua forza, un po' d'isterismo; ed il suo codazzo, dei creditori, i quali un giorno o l'altro finiranno per perder pazienza, e non mica amanti. Tu comprendi! dopo codeste brutalità, una vecchia ragazza non perdona mai.
—Ma allora?
—Tu andrai al ballo con tuo zio. Ciò è ammesso e si vede ogni giorno. Egli, è più austriaco del principe di Metternich. Ed io ne sono rapito; perchè io capisco, piccina mia, che la vita in cui forzato sono d'imbragarti, è scura e monotona. Non appartenendomi io stesso, posso appartenerti ben poco. Ma io non sono egoista.
—Lo so.
—Divertiti dunque, poichè tuo zio vuol di nuovo servirti di introduttore. Solamente, ricordati amica mia, che tu porti un nome che obliga. Io tengo poco ad un titolo che vienmi di antenati che furono alle Crociate. Ma tengo moltissimo a quello che vienmi da Dio, il quale me ne fè dono sotto la forma di strofe scintillanti, di romanzi passionati, e di una polemica politica che à spezzato più d'un ministro.
—Il nome tuo è pure il mio—risposa Regina—e ne sono fiera quanto te.
L'indomani fu per Regina una giornata di lavoro. Ella corse i negozi, le sarte, le modiste, i mercanti di fiori, i gioiellieri. Ella apparecchiava le sue armi da battaglia.
Vi è una certa ansietà nella donna che va per la prima volta nel mondo, dopo le sue nozze. Ella va a pigliar posto. Ignora ancora se la graziosa o civettesca disinvoltura della giovane donna farà obliare facilmente l'aria impacciata, la modestia quasi sciocca cui affettò fanciulla. Non conosce ancora quella linea indefinibile, e pertanto capitale, ove la facilità, l'indipendenza, la grazia, la seduzione, l'originalità delle maniere finiscono, e dove la libertà comincia. Ella conosce un uomo, ma non ancora gli uomini. Non à sperimentato ancora l'effetto del cangiamento che si è operato nella persona sua—se desso à aggiunto o tolto qualche vezzo ai vezzi suoi. Ella non à provato ancora le novelle armi della toilette di una donna: lo scollacciato, i monili, lo