I suicidi di Parigi. Ferdinando Petruccelli della Gattina

I suicidi di Parigi - Ferdinando Petruccelli della Gattina


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dottore della Facoltà e membro dell'Accademia delle Scienze!…—Tu eri ben gonzo, convienine. Voler riescire per la linea retta? Giungere per la grande strada? Ah! bah! Altrettanto sarebbe valso di trangugiare il Panthéon in pillole.

      E facendo un gesto di disprezzo contro sé stesso, ridiscese al salone, completamente freddo ed impassibile, ed ordinò la colazione.

      Bevve enormemente di the; mangiò di tutto e trovò tutto eccellente.

      Egli respinse perentoriamente, come imprudente, l'idea di comunicare l'avventura alla polizia, di segnalare la donzella e la fante per telegrafo, e di confidarle alle cavalleresche sollecitudini della gendarmeria.

      La condotta di Regina doveva passare per una malizietta da testa romantica, una storditezza da pensionista. E' non doveva complicare la situazione, nè lasciare al mondo una presa qualunque sul fondo dei suoi sentimenti, sul movimento intimo del suo cuore. Doveva apparire sempre calmo, limpido, senza la minima ondulazione. Non doveva pregiudicar l'avvenire. Doveva avere un'anima incolore, muta, apatica.

      Uscì dunque alla sua ora solita; visitò i suoi ammalati, e dopo le quattro, alla chiusura della Borsa, andò a trovare Alberto Dehal, per raccontargli lo strano ratto della sua fidanzata. Poi recossi al Circolo, ove trovò una lettera pressantissima di Augusto Thibault.

       Indice

      Un buon viglietto di lotteria.

      Nel mezzo della state del 1833, il dottore di Nubo trovavasi a

       Nicastro di Calabria.

      Un editore gli aveva dimandato di ripubblicare la grande opera di lui: L'etnologia delle popolazioni dell'Italia meridionale, che, nel 1812, gli aveva conquistato il posto di membro dell'Accademia delle Scienze ed il nastro della Legione d'Onore.

      Il dottore, viaggiava per distrarsi. Controllava il suo libro, onde metterlo al livello delle scoverte e delle dottrine, le quali avevan, dopo quell'epoca, allargato il dominio delle scienze naturali. Egli amava, d'altronde, percorrere quelle vaghe contrade, poco esplorate, e dove non s'incontra neppure lo stesso inglese! Gli osservatori si compiacciono in queste lande sociali ancora vergini, ove, di ogni sguardo, si squarcia un velo dell'incontaminata Iside.

      Il dottore infatti, scovriva costumi e maniere nuove, paesaggi potenti di splendore, di contrasti, d'inatteso: un lembo del mondo primitivo, perduto ai pie' dell'Italia, in mezzo al XIX secolo.

      Era un giorno di fiera.

      Il dottore di Nubo, a cavallo, accompagnato da una guida, se ne andava a visitar le montagne. Traversava la piazza pubblica della cittaduzza.

      Una banda di zingari ostruiva la via, circondata da una folla grande di curiosi cui aveva attirata.

      La banda componevasi di una dozzina d'individui; più, quattro scimmie, due orsi, una ventina di asini, tre cani e lo zio Tob—il quale era il proprietario, il principe, il papa, il padre, il padrone, il tiranno di tutta quella roba.

      Dond'e' venivano?

      Essi arrivavano: ecco tutto!

      L'industria ch'esercitano gli zingari nella Bassa Italia è complessa. Essi sono ferrai, maniscalchi, giocolieri, calderai, incantatori, stregoni, indovini di buona ventura, trovatori di tesori, ladri di fanciulli, scassinatori di porte… cozzoni sopra tutto. Gli uomini comprano e vendono asini; le donne rubano animali domestici, dicono la buona sorte alle fanciulle—cui esse maritano sempre riccamente e subito—o fanno peggio ancora—senza neppure accorgersi che fanno male. Si conoscono le loro costumanze. È inutile ribiascicarne.

      Essi danno del compare a chiunque. Ànno numerosi segreti di cozzoneria.

      Il più vecchio, il più magro, il più consunto dei ciuchi—un censore teatrale della specie—diviene nelle loro mani brioso come una vedova che si rimarita, uno scolaro in vacanza.

      Quando voi credete che lo zingaro apra la bocca di questa povera bestia per mostrarvene i denti—cui ha testè segati per dissimularne l'età—egli le cola destramente nella gola una pillola infernale di peperone che le brucia le viscere, la incita alle follìe e le dà gli ardori verdi ed irresistibili di un cappuccino. Quando voi credete ch'e' ne carezza le groppe; egli le punge a dentro, mediante un cardo a punte acute nascosto nelle palme. Voi credete che la bestia è grassa come un abate benedettino; essa è nè più, nè meno che gonfia. Laonde, il contadino diffida a modo delle compre e delle vendite dei gitani.

      Il dottore, fermo un istante dall'ingombro nella via di quella comitiva bizzarramente stracciona, vide venire a lui una creatura di dieci o dodici anni ch'egli suppose del sesso femminile, e chiedergli un piccolo dono.

      Gli zingari non mendicano mai. Essi prendono a mutuo; domandano un piccolo regalo; rubano; ma non stendono la mano alla limosina. Crederebbero mancarsi di rispetto: ànno un'industria!

      La vista di quella cosina—era una ragazza—colpì il dottore.

      Ella era assolutamente un embrione, tanto era segaligna e magra. Ma quell'embrione, sviluppato dalla natura che ne aveva gettato i rudimenti, poteva divenire sublime. Per il momento, non iscorgevasi che delle ossa ammirabilmente organizzate; dei grandi occhi neri scintillanti come quelli di un serpente in collera; dei lunghi e castagnini capelli, che contornavano una fronte elevata e larga, a mo' di paralellogramma; una pelle che non era bruna, che non era pallida, ma che, animata da una circolazione meglio nutrita, poteva acquistare una tinta più chiara e trasparente di quella di una creola. Poi, una bocca grandicella, ma ben fessa ed armata di piccoli denti bianchi, acuti ed eguali; una vitina svelta, alta, soffice, pieghevole come un giovane pioppo. Insomma eran quivi i primi stami di una di quelle donne che, trasportate in una grande città ed in un mondo come Parigi e Londra, possono addiventare un flagello, una magia: che cominciano sempre per levarsi da Cleopatre avvegnachè finiscano talvolta in Maddalene.

      Il dottore gettò una moneta d'argento alla bambina e continuò il suo viaggio per l'escursione progettata. Ma, cosa bizzarra! quell'abbozzo di donna gli trottò per lo spirito tutto il dì.

      Si fermò di un tratto.

      Non era però il magnifico orizzonte che si spiegava innanzi ai suoi occhi che lo arrestava.

      E' non vedeva punto, dalla cima di quell'appennino, solcato da filicciuoli di neve come una tavola di vecchio rovere niellata in argento, nè il Mar Jonio dai flotti verdastri; nè il Tirreno arrovellato dai suoi cavalloni turchini; nè l'Etna che ondeggia in distanza in un'aureola di vapori violetti; nè quel cielo allo spazio infinito, che con la sua profonda limpidezza sembra raddoppiare la potenza della vista. No: e' non vedeva nulla di tutto codesto, nè altra cosa. Un'idea aveva traversato la mente del dottore di Nubo come un lampo nel fitto della notte.

      —E s'io m'impossessassi di questa potenza?—brontolò egli alla fine.

      E dette ordine alla guida di tornare immantinente a Nicastro.

      I psicologi àn tanto scritto sull'origine, la nascita, la cristallizzazione del pensiero, che non se ne sa assolutamente più nulla. Laonde, io m'astengo netto dall'intraprendere un'investigazione metafisica su questo subietto—ne fosse pur questo il momento.

      L'intuizione subìta dall'avvenire poteva ben essere nello spirito del dottore la conclusione di un seguito di ragionamenti anteriori, la soluzione di numerosi dubbii, di molte paure, di lunghe ricerche, di una meditazione attiva e persistente sul suo proprio passato. Il suo grido finale poteva ben essere l'ultima parola di un problema, di cui studiava le premesse da lungo tempo, l'ergo di un sillogismo che era costato, Dio sa quante veglie e quante preoccupazioni. Però chi lo sa? Il conte di Nubo non era comunicativo sulle sue evoluzioni psicologiche.

      E' non era di quella pasta d'uomini cui Orazio qualifica di fruges consumere nati—buoni tutto al più ad ingollare la loro polenta—come un deputato ministeriale. La sua esistenza, zeppa, poco ordinaria, era scorsa a cielo aperto, a cielo offuscato, nei chiarori


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