I suicidi di Parigi. Ferdinando Petruccelli della Gattina

I suicidi di Parigi - Ferdinando Petruccelli della Gattina


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a Napoli per legalizzare quella dell'intendente; e se voi dovete far uso di quest'atto all'estero, perchè desso sia autentico, bisogna farla vistare altresì dal ministro degli affari stranieri e dall'ambasciatore.

      —Ciò mi riguarda—disse il dottore, dandogli congedo.

      A mezzodì, il dì seguente, il dottor Gennaro conte di Nubo entrava nel coupé di posta, azzavorrato della sua nipote Regina Bello, munito dell'atto di nascita di lei legalmente falsato.

       Indice

      La gitanella.

      La gitanella è oggimai Regina Bello, figliuola di un proprietario di

       Nicastro e dell'ultima erede della famiglia gli Atripalda di

       Nubo—nipote quindi del dottore Gennaro conte di Nubo.

      Conte e non principe di Nubo, non avendo giammai voluto prendere questo titolo—tanto sacro era il culto ch'e' conservava alla memoria di suo padre, morto sul palco, per causa politica, nel 1799, a Napoli.

      Il dottore sapeva, da sorgente autentica, che Maria Lucrezia Paolina di Nubo era morta presso la sua nutrice, nel 1807. Ma gli era utile ai suoi disegni di accreditare la leggenda, che questa fanciulla era restata nascosta, che aveva in seguito sposato un uomo oscuro, e che il governo borbonico aveva fatto vista, in questa circostanza, di nulla sapere, tanto più che la donzella non aveva dimandato, nè la restituzione dei beni di sua famiglia confiscati, nè la reintegrazione del suo rango.

      Trapiantata di un tratto dalla polvere delle strade pubbliche—ove ella trottava quando non si accoccolava sulle groppe nude di un asino—in un bel coupé di viaggio, imbottito di crini e tappezzato di verde velluto, dopo qualche minuto di stupefazione, Regina cominciò a provare il mal di mare. Vedendola impallidire, il dottore la prese sulle sue ginocchia, le fe' sorbire una goccia o due di laudano in mezzo bicchier d'acqua, e subito gli spasimi dello stomaco della figliuola si calmarono.

      Regina parlava l'ungherese, il russo, il tedesco, il polacco, il francese, e cominciava a cincischiare l'italiano. L'ungherese era la lingua di sua madre. Il russo, era la lingua del capo, il quale, quattro anni prima dello zio Tob, era lo czar della banda. Regina aveva vissuto quattro anni in Germania; due, nel mezzodì della Francia. V'erano nella truppa due polacchi ed una polacca—Senza parlare di due cani, sconcissimi e paganissimi, che scaturivano pure dalla nobile e cattolicissima Polonia—e dello zio Tob, il quale poteva esserne altresì, quantunque nato nel Yorkshire—non confessando giammai la sua patria, tuttochè si vantasse discendere dal re Augusto, per via scorciatoia. Regina parlava queste lingue con una maravigliosa facilità, senza accento, avvegnacchè pure senza grammatica.

      Qualunque cosa la aveva visto, era restata impressa nel suo spirito. Qualunque cosa aveva udito, si era confitta nella di lei memoria. Non sapeva leggere, ma stampellava sulla via del pensiero. Poi, con un pezzo di carbone, sgorbiava le più strambe caricature e per fino i ritratti dei suoi camerati. Grattava un violino. Batteva naccare e tamburino con leggiadria. Per l'immaginazione, ella comprendeva e indovinava tutto, sovvenivasi di tutto, sapeva di tutto—e raccontando ciò che sapeva, mimicava con molta grazia i personaggi cui metteva in scena.

      Regina si famigliarizzò subito col dottore—il quale, per leggere fino al fondo in quest'anima, prestavasi con compiacenza alle fanciullaggini, alle fantasie di lei.

      Ella era completamente vergine d'anima, benchè il suo linguaggio, i suoi gesti, fossero bruttati dalle memorie di quella vita senza pudore, nè ritegno propria degli zingari. Il dottore non le fece mai un'osservazione—sapendo che con le nature, ove l'immaginazione predomina, l'osservazione è improficua e l'esempio è tutto. Nel medio dì un mondo nuovo, parlando un altro linguaggio, con altri costumi, Regina—calcolava il dottore—si eleverebbe immediatamente al medesimo diapason, e la damigella del mondo metterebbe senza pietà all'uscio la gitanella—senza aver bisogno di sermoni di morale, farla arrossire, sopra tutto farla pensare sul bene e sul male—ciò ch'è sovente pericoloso.

      Il bene è di rado attraente, è mestieri ricordarsene.

      Giunti a Napoli, il dottore spogliò Regina dei suoi cenci molticolori. Però, quando la vide azzimata da damigella civile, e' ne restò scompigliato.

      Regina era brutta!

      La disarmonia dell'attillamento aggiungeva abbellimento alla beltà rudimentale della gitana. Ora, l'armonia del vestito rilevava l'incoerenza, l'incompiuto, l'abrupto di quella leggiadria. L'occhio, inoltre, non aveva ancora trovato quel termine medio che si addimanda abitudine, e che è la linea di congiunzione ove gli estremi s'incontrano e le asperità scompaiono.

      Imprigionata in gonne inamidate, in busti, in cerchi di balena e di acciaio, le trecce composte, il capo inquadrato in un cappellino rosa—ella che era bruna, stretta, stecchita, Regina aveva l'aria stupida, imbarazzata. Non sapeva più nè camminare, nè sedere, nè parlare, nè muoversi. Si dibatteva goffamente come un pesce tirato dall'acqua.

      Questo stato di transizione, questo periodo di acclimatazione novella, quella specie d'intirizzimento fisico e di stupefazione morale, durarono una settimana. Regina piangeva più spesso che non parlava. Ma quella settimana trascorsa, della zingarella non restava più che l'istinto.

      Il dottore si trattenne un mese a Napoli, poi si rimise in viaggio per la Svizzera. Viaggiando, e' raccontò a Regina, o piuttosto le apprese, l'istoria della di lei famiglia. Le parlò del padre, della madre, degli antenati, ricamando tutto codesto di circostanze assai naturali per spiegare alla figliuola—o meglio a coloro cui questa l'avrebbe poscia raccontato—la di lei vita nomada: come e per qual motivo ella era stata rubata dagli zingari; poi come ella era stata scoverta e riconosciuta dallo zio e messa in libertà.

      Il romanzo era ammirabile di verosimiglianza, come lo sono spesso i romanzi—perchè il dottore aveva tirato partito dalla realtà, dalla vita di Regina. Questa s'intenerì sopra sè stessa—forse restò ella pure convinta del racconto. In ogni modo, ella percepì di volo che codesto doveva essere raccontato così, e che il più doveva essere obliato e taciuto.

      Il dottore collocò Regina in una pensione di damigelle protestanti nel Cantone di Berna. Raccomandò alla direttrice di non cacciar dentro al cervello di sua nipote nè mitologia, nè catechismo, nè storia sacra, nè storia greca e romana, nè nulla di quella congerie di stolidezze che s'insegna in Francia alle donzelle. Chiese che le si apprendesse la grammatica, le matematiche, la geografia, la botanica, la storia naturale, i tratti principali della storia moderna di Europa, le lingue… e poi molta musica, disegno e ginnastica. Sopratutto la ginnastica.

      Pagò in avanzo due anni di pensione e partì.

      Passarono quattro anni prima che il dottore pensasse di andare a veder sua nipote, e perfino a scriverle. Ne riceveva qualche nuova dal banchiere di Berna, il quale pagava le spese di pensione.

      Regina aveva adesso quindici anni.

      Nel 1837, il dottore si decise infine a rivisitare la Svizzera.

      E' si aspettava, senza dubbio, a trovare un cangiamento radicale nella gitanella che vi aveva lasciata. La natura e l'educazione avevan dovuto menare a buon termine l'opera, e realizzare o disingannare molte speranze e promesse. Ma tutto ciò cui il dottore aveva fantasticato lungo il viaggio, soprapponendo, per una specie di ricostruzione psicologica, immagine sur immagine, ritratto su ritratto, era rimasto indietro dalla realtà cui Regina doveva offrire ai suoi sguardi stupefatti.

      La natura e l'educazione avevano principescamente finito lo schizzo, cui il dottore aveva intravisto a Nicastro. Regina era veramente divenuta, per bellezza, quella macchina infernale cui il dottore aveva presentito.

      Il colorito stesso della giovinetta erasi rischiarato. Aveva acquistato quella pallidezza opaca ch'ànno le Italiane quando son pallide, non gialle—quella pallidezza perlata, cangiante sotto le pulsazioni, più o meno vive, del cuore, ed alla marea più o meno calda del sangue: un caleidoscopio di passioni! Poi,


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