Senz'Amore. Marchesa Colombi
—Ci sono stata una volta, quando andavo a scuola ad imparare il mestiere. La maestra, pel suo onomastico, ci condusse tutte a pranzare a Sesto. Allora ne ho visti dei polli felici. C'era una covata di pulcini che beccava pigolando beatamente sopra un letamaio; ed avevano l'aria soddisfatta e ghiottona come tanti bimbi intorno alla vetrina d'un confettiere.
Continuò a lavorare in silenzio, sorridendo alle sue memorie, poi riprese:
—È tutto bello per loro quando si trovano nel loro ambiente rustico. C'era un'enorme scrofa, disfatta dalla eccessiva pinguedine, che sonnecchiava grugnendo ai piedi del letamaio al quale si addossava, colla pancia stesa e tremolante come una vescica piena d'acqua o una pelle di olio. Ed i pulcini, beccando e pigolando, scesero giù l'uno dopo l'altro su quella vasta superficie nerastra; e passeggiavano come sopra una piazza, cacciando il becco fra i crini, e comunicandosi a vicenda le loro impressioni con dei pi pi pi pieni di meraviglia. Ce ne fu uno che imprese un viaggio d'esplorazione nei labirinti d'un orecchio; ma la scrofa, sentendosi solleticata, diede uno scossone che lo fece cadere a terra con tutti i suoi compagni. E che pigolìo allora, che chiocciare della mamma spaurita, che batter d'ali, che vocio per tutto il cortile!…
Smosse parecchi spilli, intrecciò i capi di filo facendo risuonare i fusi innumerevoli che si urtavano, poi, sorridendo sempre alle sue immagini serene, tornò a dire:
—Com'è bella la campagna!
—E neppure oggi non esce? domandò il cuoco. Se vedesse che giornata, che sole!
—Che! Non ho tempo neppure di farmi la minestra. Non so quando mi potrò muovere; ho un lavoro straordinario. Le signore hanno bisogno delle trine per le bagnature; s'io vado a spasso chi le prepara? Debbo star qui tutto il giorno e tutta la sera chi sa fin quando; e la mamma pure ha bisogno che lavori per darle un po' di quattrini….
Il cuoco ridiscese alla sua cucina più malinconico di prima, strascicando ancora più lentamente le cadenze della sua canzone:
«Senza galletto, la mia gallina
O poverina—come farà….»
E la Teresa continuò ad armeggiare cogli spilli e coi fusi. Tratto tratto alzava il capo e lo spingeva indietro girandolo da destra a sinistra per isgranchirsi il collo indolorito dal lungo star curvo. Più volte si coperse gli occhi con una mano, e li tenne stretti per riposarli. Poi ripigliava con maggior lena il lavoro; ed intanto ripensava la miseria di quei polli: «Quanto dovevano essere infelici! Certo non cantavano più là dentro; dovevano morire di malinconia.»
Sull'imbrunire, mentre la Teresa si curvava cogli occhi fin sul tombolo per profittare dell'ultimo barlume di giorno, s'udì una voce d'uomo, giovane ed alta che cantava:
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai.»
La Teresa stette un momento a sentire, poi posò il tombolo, salì in piedi sulla sedia, e s'affacciò al finestrino che metteva sul tetto. Guardò quella distesa sterminata di tetti e comignoli e gronde e grondaie e cupole di chiese e campanili, e più lontano, come una fascia verde, le cime degli ippocastani dei bastioni; poi l'azzurro, l'azzurro chiaro, infinito, come se dopo i bastioni ci fosse il mare. E le parve di vedere la campagna de' suoi ricordi; le parve d'esser laggiù, non più bambina con la maestra trinaia, in un'osteria di Sesto, ma giovinetta innamorata della libertà, dell'aria pura, della natura bella, e di camminare, di camminare sotto i viali verdi, sull'erba umida e fresca.
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai….»
ripeteva un po' in falsetto quella voce di tenore.
E la Teresa pensava d'andare a Monza sul tranvai, col suo vestito da festa; e quel giovane che cantava, quello o un altro, era là sulla panchetta del tranvai che l'aspettava. Andavano insieme; lui la guardava negli occhi e lei si sentiva arrosire. Non parlavano, ma erano felici, felici in silenzio, finchè scendevano alla stazione, si pigliavano a braccetto, e via pel viale fin giù nel parco, dove sedevano accanto, sull'erba verde, sotto il cielo turchino…
Le balzava il cuore di commozione, le brillavano gli occhi guardando nell'ombra che era scesa tutt'intorno sulla città, e lei pure colla voce tremante si mise a cantare:
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai
Vado a Monza sul tranvai…»
Il cuoco, che stava rigovernando giù in fondo al cortile presso la finestra della cucina, alzò il capo verso il tetto che non vedeva, ed esclamò malinconicamente:
—Com'è bella la gioventù!
UNA CONFESSIONE
RACCONTO.
—A martedì, disse Marco, stringendo lungamente la mano della sua sposa e guardandola fisso.
—A martedì, rispose lei, abbassando gli occhi e facendosi rossa come una fiamma. Egli si chinò e la baciò sulla fronte il che sollevò un vocío di commenti giulivi da parte della mamma, delle amiche, e di vari signori. Ma, nè Marco nè la Maria mostrarono d'udire quegli scherzi. Per loro nulla era più serio del sentimento che li turbava. Si strinsero la mano di nuovo e si separarono in silenzio.
Erano alla stazione di Camerlata. Marco salì in convoglio per tornare a Milano. La sposa colla sua mamma ed alcuni conoscenti, montarono in varie carrozzelle da nolo per tornare alla villa, tra Gradate e Portichetto.
Le nozze dei due giovani si dovevano celebrare il martedì prossimo a Gradate, ed era appunto la sera del giovedì, quattro giorni prima, che Marco si separava per l'ultima volta dalla sua sposa. Aveva passata quasi una settimana alla villa della vedova Nardi, che stava per diventare sua suocera, ed in quel tempo s'era fatta la richiesta al Municipio, s'erano presentate le carte necessarie, e Marco ne riportava le copie a Milano, per riporle fra i documenti di famiglia.
Salito nel vagone guardò traverso lo steccato la Maria che saliva in carrozza, svelta ed elegante; nell'oscurità della sera non vedeva che la linea della persona disegnata dal vestito chiaro. Ma l'aveva nel pensiero, nel cuore, negli occhi, e gli pareva di distinguere il viso lungo e delicato, la pelle bianca, i grandi occhi turchini ombreggiati da ciglia scure, la fronte larga e bassa, ed i bei capelli biondi che le facevano intorno una frangia di riccioli.
Non s'amavano d'un lungo amore da romanzo, non erano cugini nè amici d'infanzia. Un conoscente comune aveva detto a Marco:
—Dovresti sposare la signorina Nardi. Non è ricca, ma ha una trentina di mille lire, è semplice, colta, gentile, timida come una bambina dinanzi agli estranei, ma in famiglia è allegra, schietta e coraggiosa. E sopratutto è buona; profondamente buona.
—Non la conosco, aveva risposto Marco.
—Non conosci quella bionda alta e sottile che incontriamo spesso, quando siamo a Como, sulla strada di Camerlata in compagnia di una signora matura, che è sua madre?
Era la mamma di Marco che prendeva parte al discorso per richiamargli alla mente la giovinetta. Suo figlio aveva venticinque anni passati; ella desiderava che si ammogliasse, ed osservava le fanciulle che incontrava, per cercare una nuora. Quella le era andata a genio; era anch'essa, come Marco, figlia unica d'una vedova; l'analogia della situazione poteva essere una causa d'amicizia, un vincolo fra le due mamme.
Marco si ricordò infatti quella giovinetta. L'aveva osservata poco; gli era sembrata una bambina. Ma dopo quel discorso ci pensò, se la richiamò alla mente, bella, ingenua nella sua gioventù immacolata, e provò un turbamento al pensare che quella fanciulletta candida la darebbero a lui, che potrebbe essere sua, vivere con lui nella più stretta intimità.
Il giorno dopo gli riesci d'incontrarla che usciva di casa colla madre; la seguì da lontano, inebriandosi all'idea di possedere quella bella