Senz'Amore. Marchesa Colombi
rispose il medico ridendo; poi, dopo averlo visitato, soggiunse:
—Ti sei buscata una bronchite; leggera, ma che ti farà stare a letto una settimana.
Marco sorrise con aria incredula, e non rispose.
Dopo cinque o sei giorni si alzò, ma sempre più triste. Il dottor Andreoni lo trovò seduto in una poltrona colle mani pendenti, il capo chino, un'aria da vittima rassegnata, come se fosse stato infermo tutta la vita. Gli applicò il termometro sotto l'ascella, lo esaminò, poi disse:
—Sei guarito; abbiti un po' di cura per alcuni giorni ancora, e non c'è altro. Sta di buon animo.
—Sì, sì, sono guarito; ripetè Marco col solito piglio incredulo.
—Perchè lo dici a quel modo? Cosa ti senti?
—Nulla mi sento. Sto benissimo. Fra sei mesi starò anche meglio. Non vede come ingrasso? E mostrò le sue mani, che infatti, da qualche tempo, erano smagrite, como tutta la sua persona.
—Sfido! Se non mangi…
—Si mangia a seconda dell'appetito che si ha, e si ha appetito a seconda della salute.
—Ma la salute, mio caro, dipende anche molto dalle disposizioni d'animo in cui viviamo. Tu, da un pezzo in qua, ti dai alla vita solitaria, alla malinconia. Se credi che questo regime ti giovi…
—Caro dottore; io non sono più pauroso d'un altro. La morte non mi spaventa; ma ammetterà che la prospettiva di finire come i miei poveri fratelli, di lasciar qui la mamma sola, dopo averle straziato il cuore con una lunga malattia, non è fatta per mettermi di buon umore.
—Ma dove la vedi questa prospettiva? domandò il medico; t'assicuro che sei forte, che stai benissimo.
Marco mostrò parecchi trattati di medicina che aveva sulla scrivania, e che da qualche tempo erano diventati i suoi libri prediletti, e disse:
—Questi sono più sinceri di lei, dottore; mi dicono la verità che lei vorrebbe nascondermi, e mi fanno bene, perchè mi preparano all'avvenire che mi aspetta.
Il dottore si trattenne a lungo a discorrere con lui; gli espose minutamente il suo stato di salute, la sua costituzione, quali gli risultavano dalle ripetute visite, precisamente come avrebbe fatto con un collega chiamato in consulto. Ma Marco gli rispondeva colla solita ragione del male ereditario. Quell'idea gli si era fitta in mente con una forza spaventosa, e gl'impediva di apprezzare qualsiasi argomento in contrario.
I giorni passarono, venne il gennaio, cominciarono le feste del carnevale, e Marco continuava a stare in casa come un convalescente. Quando gli dicevano di uscire rispondeva che faceva freddo, che il tempo era umido, e rimaneva per lunghe ore immobile nella poltrona, e guardava fuori dalla finestra con certi occhi da moribondo che saluta la luce, che faceva veramente pietà.
Il medico cominciò a mettersi in pensiero seriamente.
—Se vai di questo passo, ti ammalerai davvero, gli diceva.
Ma tutto era inutile, e Marco dimagrava visibilmente.
Sul finir di gennaio il dottor Andreoni prese a parte la signora
Bellazio e le disse:
—Mia cara signora, bisogna assolutamente che quel ragazzo cambi modo di vivere, se non vuole ammalarsi. Sono quattro mesi che si sta crucciando con un'idea penosa; è dimagrato, e quella malinconia potrebbe procurargli il male che teme.
—Ma cosa posso fare? domandava la povera donna piangendo; ho tentato ogni mezzo, gli ho proposto di viaggiare, ho invitati i suoi amici, l'ho obbligato ad accompagnarmi fuori; ma, con chicchessia e dovunque, la sua tristezza non lo abbandona mai. Cosa posso fare, mio Dio?
—Cerchi di persuaderlo che non ha nessun male, che non ha disposizione alla tisi; non c'è altro. Infatti non ci ha disposizione, glielo assicuro io in coscienza.
Dopo un lungo colloquio col medico, che passò una parte della serata con lei, la signora Bellazio entrò da Marco, pallida ed abbattuta, cogli occhi ancora rossi, ed un gran peso sul cuore. Era una scena desolante. Avere in sè la certezza che il suo ultimo figlio era sano, che avrebbe potuto vivere, e vederlo spegnersi volontariamente per un pensiero ostinato, vederlo andare incontro alla morte straziante de' suoi poveri fratelli, era una tortura, per quella madre già tanto sventurata.
Eppure in quel momento era evidente che un'altra agitazione la turbava. Lottava con sè stessa. Sentiva d'avere un dovere da compiere, e non ne aveva la forza.
Un momento s'accostò al figlio, e susurrò: «Senti, Marco;» poi le mancò il coraggio di proseguire; una timidezza invincibile le strozzava le parole in gola. Quello che doveva dire era troppo difficile.
Sull'imbrunire, rinfrancata dalla penombra che la avvolgeva come in un velo, cominciò:
—Senti, Marco; debbo dirti una cosa…
Ma quand'egli le alzò in viso i suoi occhioni indifferenti con un'aspettazione senza interessamento, si intimidì un'altra volta, e soggiunse fremendo:
—No; non posso. Vi sono delle confessioni difficili; troppo difficili, per una povera donna.
Andò fin sull'uscio per ritirarsi nella sua camera, poi tornò indietro, nervosa, eccitata, ed esclamò:
—E tuttavia non posso lasciarti passar la notte così. Da' retta, tu non sei malato, non puoi esserlo; capisci che non puoi esserlo; capisci che non puoi? Che sono io che te lo dico?
—Tu ne sai di molto, rispose Marco, col suo sorriso rassegnato. Lo dici oggi perchè l'avrai udito dal medico. Ma se non è oggi sarà domani. Quando si è di quel ceppo….
—Ma se non sei di quel ceppo! gridò la povera donna, nascondendosi il volto fra le mani e scoppiando in singhiozzi.
—Mamma!… esclamò Marco balzando in piedi.
Ma la vide in una convulsione di pianto, avvilita, vergognosa, e non osò dir altro.
Ella rimase un momento, forse aspettando una interrogazione conciliante sulla colpa che confessava, poi uscì sempre piangendo e senza scoprirsi il volto.
Marco non ebbe il coraggio di trattenerla. Provava un'ignota sensazione di vergogna come se il colpevole fosse stato lui. Ad un tratto si sentì travolto in tutt'altro ordine di sentimenti e d'idee. Il germe del male di famiglia non c'era; non potè pensarci più. Ma sentì un'onta pesargli addosso, come un nemico da combattere, e tutto il suo sangue si mise a ribollirgli nelle vene. Non era debole, non era malato, ed aveva un avvenire dinanzi a sè. Sentì di dover agire, ed il primo pensiero che gli si affacciò alla mente fu per sua madre.
L'aveva vista piangere di vergogna, e ne sentiva una grande pietà. Avrebbe voluto andare ad abbracciarla, a dirle che comprendeva quanta abnegazione doveva esserle costata la rivelazione di quel segreto; che quell'atto di lealtà espiava molto; che l'amava sempre, che voleva perdonarle. Pensava delle scuse per lei; la sua gioventù, l'infermità del marito, forse un matrimonio contratto senza amore; ma al momento d'avviarsi gli mancò il coraggio.
Dacchè era al mondo, era avvezzo a trattarla con tanto rispetto, che gli sarebbe sembrato d'insultarla facendo allusione a quanto lei aveva confessato. Era un argomento di cui non era possibile parlare fra loro. Non avrebbe osato neppure di rivederla per qualche tempo; sarebbe bastato che i loro occhi si fossero incontrati, per confonderli e farli arrossire tutti e due.
Si diede a pensare seriamente che cosa potrebbe fare.
Dopo quella rivelazione le cose erano mutate per lui. Il patrimonio del signor Bellazio non gli apparteneva. Egli poteva, per salvare l'onore di sua madre, portarne il nome, ma non voleva appropriarsene il denaro. Quando aveva domandata la mano della Maria era quasi ricco; ora possedeva soltanto il suo impiego e poche migliaia di lire guadagnate nella sua brevissima carriera da ingegnere, e che aveva già spese in parte per addobbare la sua nuova casa.
—Se mi ama davvero, questo non dovrebbe cambiare le sue risoluzioni, pensò.