Senz'Amore. Marchesa Colombi

Senz'Amore - Marchesa Colombi


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perifrasi per velare i discorsi meno che puri, ed evitare ogni parola ardita. La vide farsi rossa rossa nel salutare un signore che aveva inchinata sua madre, e pensò che quel rossore verginale egli potrebbe, forse tra poco, baciarlo.

      La signora Bellazio incaricò l'amico, da cui era venuta la prima proposta, di fare la domanda di matrimonio; le signore Nardi madre e figlia conoscevano Marco di persona, e la Maria si fece molto rossa quando sua madre le domandò come lo trovasse.

      Il portatore dell'imbasciata fu incaricato d'invitare i signori Bellazio a passare una giornata alla villa Nardi presso Gradate; e Marco vi andò agitatissimo, turbato da mille curiosità, impazienze, paure. Era già innamorato, e quando ripartì la sera per Milano, non solo era fidanzato, ma era certo d'essere amato dalla Maria.

      Erano passate sei settimane soltanto, e Marco tornava un'altra volta a Milano solo; ma era l'ultima. Fra quattro giorni doveva andare a Gradate, prendersi la sua bella sposa, e partire con lei per un luogo qualsiasi; lui solo con lei sola. Quell'amore di due mesi era più caldo che un amore d'infanzia, che una passione contrastata da anni. Serbavano tutta la loro freschezza d'impressioni, non avevano esaurita la gioia di vedersi, di parlarsi, di studiarsi; si promettevano ancora un mondo di scoperte e di rivelazioni nella conoscenza più intima. C'era nel cuore di Marco la commozione profonda di chi aspetta una gioia sicura. Non si impazientava. Si deliziava di pensare a quel breve passato; di sentire la sua tenerezza, di figurarsi quella di lei ricordandone le parole, gli sguardi, i rossori; e di pregustare la felicità che si era assicurata. Era una commozione che lo faceva piangere, ma anche il piangere gli riesciva dolce.

      Arrivò a Milano tardi. Sua madre era già a letto. S'affaccendava tutto il giorno fuori di casa, nel nuovo alloggio che avevano appigionato, per apparecchiare il quartierino degli sposi, accanto al quale s'era riservate tre stanzette per sè; e quando rientrava nella casa che stava per abbandonare, era tanto stanca che andava subito a dormire.

      Marco invece era troppo eccitato quella sera per aver sonno. Aprì la cassetta della scrivania nella quale doveva riporre i documenti di famiglia che aveva riportati. Pose la sua fede di battesimo in una busta con quelle de' suoi fratelli e d'una sorella. Erano stati quattro, ed ora si trovava solo.

      Mise un sospiro, che passò come un soffio lieve sul giubilo del suo cuore, poi prese una seconda busta, sulla quale era scritto di mano di sua madre: «Fedi mortuarie.»

      Anche là ce n'erano parecchie, tutte piegate insieme l'una nell'altra per ordine di data. Marco aperse il piego e si pose a leggerle: «Alberto Bellazio; morto il 20 gennaio 1873, nato il 2 febbraio 1847.»

      —Aveva ventisei anni, povero Alberto, pensò Marco. Ora ne avrebbe ventotto, sarebbe già ammogliato; aveva un'amore d'infanzia colla signorina Montani…. E si figurò quella graziosa donnina giovane alle sue nozze; invece da parte sua non c'erano altri parenti che sua madre da invitare.

      Mise da parte quella fede, e guardò l'altra che stava sotto:

      «Elena Bellazio, maritata Villa, morta il 4 luglio 1871, nata il 10 agosto 1845.»

      —Anche lei aveva ventisette anni, ed ha lasciati quei due bambini tanto gracili, che il padre dovette andare a stabilirsi in riviera per tenerli vivi coll'aria e coi bagni di mare.

      La gioia di Marco era offuscata. Il pensiero di quei cari morti che gli lasciavano tanto vuoto intorno, di quei nipotini la cui vita era tanto incerta, lo rattristava. C'era ancora una fede da togliere prima di mettere a posto quella del padre.

      «Vittorio Bellazio morto il 30 settembre 1868, nato il 2 agosto 1843.»

      A ventiquattro anni non ancora compiti. Si moriva tutti tanto giovani nella sua famiglia! Povera mamma! Di quattro figli ne aveva già sepolti tre. Ed era stata sola a sopportare quegli immensi dolori. Il marito l'aveva perduto da tanti anni, quando i figli erano ancora piccini. Marco non l'aveva neppure conosciuto. Era nato da poche settimane, quando il padre era morto, dopo sei anni di matrimonio. Sei anni, povera mamma, e poi venticinque di solitudine. E non s'era rimaritata, non aveva amato più. Tutti quegli anni di gioventù li aveva consacrati ai suoi figli…

      Marco rimaneva intento su quella carta, col capo fra le mani, fantasticando tutto quel passato triste, quelle date funebri che avevano funestata la sua famiglia; e non poteva scacciarsi dal pensiero quell'età: ventisette anni. Tutti erano morti prima di compire i ventotto. E lui ne aveva quasi ventisei.

      Se anche lui avesse dovuto morire fra un anno, fra pochi mesi! E lasciare la sua sposa vedova, così giovinetta… E magari con un bambino; un bambino gracile, malaticcio, come i figli della povera Elena… E condannarla ad una vita d'abnegazione e senz'amore come quella della sua mamma!.. Oh Dio Dio! Ma perchè morivano tutti. a quell'età? Che maledizione li perseguitava?

      Lui era sempre stato assente in quelle circostanze. Aveva passati sei anni in Isvizzera; i particolari delle malattie che gli avevano portati via tre fratelli li ignorava. Ma doveva essere una soia identica malattia; una triste eredità di famiglia.

      Impaziente, nervoso, frugò ancora fra le carte, e tirò fuori le dichiarazioni mortuarie del medico, delle quali sua madre aveva serbate le copie.

      «Tisi polmonare. Tubercolosi. Tisi galoppante…»

      Marco s'era fatto pallidissimo, fino le labbra erano bianche. Tremava tutto, aveva le mani diaccie, ed un infinito abbattimento lo invadeva come se stesse per morire.

      —La tisi non perdona. Io pure dovrò andarmene come i miei fratelli. Questo pensiero si formulò nel cervello di Marco come una verità accertata, indiscutibile. Gli pareva impossibile di non averlo saputo prima. Era alto e sottile; era magro anzi. Ecco perchè sua madre non gli aveva mai voluto parlare delle malattie de' suoi poveri morti.

      Gli diceva che quel discorso la rattristava troppo. Ma invece, era per non impensierir lui, che lo sfuggiva. E suo padre pure era morto prima dei ventotto anni, d'una malattia di languore, diceva la vedova. Doveva essere lo stesso male che si era riprodotto nei figli. Marco esaminò le dichiarazioni mediche che rimanevano, spiegazzando le carte con mano febbrile. Anche il padre era morto di tisi polmonare.

      Marco ripensò i bambini di sua sorella pallidi e biondi, colle manine lunghe o la vocina esile.—Così sarà tutta la nostra generazione. La mia, perchè quei bambini non vivranno tanto da procreare altri infelici…

      Tutti i sogni ridenti che aveva portati da Gradate erano dileguati; pareva che gli avessero steso dinanzi un velo nero fitto.

      Vedeva sè stesso debole, steso in una poltrona, e la sua bella sposa dimagrita, curva sulla culla d'un bimbo moribondo, in una casa malinconica…

      Piangeva un pianto silenzioso, desolato; piangeva la sua salute perduta, le sue speranze morte, il suo amore…

      —Dovrò confessar tutto alla Maria ed a sua madre. Non voglio ingannarle. In coscienza non potrei farlo. Se accetta di dividere la mia vita di sventura…

      Quella scena triste tornò a passargli dinnanzi al pensiero; e la Maria era vestita a bruno, ed il bimbo moriva…

      —Se accetta? Ma son io che non debbo accettare il suo sacrificio. Son io che debbo rinunciare a sacrificare una povera giovane, a mettere al mondo dei bimbi malati, ad eternare la disgrazia che pesa sulla mia famiglia…

      Sonò il tocco dopo mezzanotte. Alla metà di settembre le nottate cominciano ad essere fredde. Marco sentì un brivido percorrergli le reni, ed un impeto di tosse gli scosse un momento il petto. Crollò il capo, come per dire: «Ecco, sono andato.»

      Poi prese un foglio di carta e si mise a scrivere. La penna scorreva, scorreva nervosamente, le righe si coprivano con grande rapidità, ed intanto i singhiozzi lo scotevano tutto, e tratto tratto qualche lagrima cadeva sul foglio. Si asciugava gli occhi perchè non ci vedeva più, e tirava via a scrivere, a scrivere. Era un addio disperato, tragico, alla sua sposa. Non doveva vederla più, ed esser forte. La sua coscienza glielo comandava; voleva obbedire coraggiosamente, pel bene di lei. Poi cominciava a dirgliene la ragione. E si fermava a piangere su quelle morti immature, su quelle tombe, e s'inteneriva, e s'abbandonava a ricordare i suoi sogni di felicità svaniti


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