Come l'onda... Novelle. Luigi Capuana

Come l'onda... Novelle - Luigi Capuana


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anch'esso qualche regalo mangereccio.

      — A che pensa? — domandò la signora, vedendomi così assorto.

      — Penso, — risposi, — ch'è bene ci siano al mondo felicità che non si possono mai possedere!

      — Una felicità non posseduta è piuttosto un dolore.

      — Per possedere certe felicità e possederle per sempre (aggravai la voce sul certe e sul sempre), l'unico mezzo, cara signora, è non possederle mai.

      — Una donna, — ella rispose, — non parlerebbe a questo modo.

      — Perchè?

      — Perchè noi siamo molto più pratiche degli uomini.

      — Questo mi stupisce, dopo averla sentita parlare dei mille romanzi che ha letti.

      Mi tornò alla memoria quel po' della sua vita, che ella mi aveva confidato la sera avanti. Sentivo susurrarmi all'orecchio: «Ho sofferto, ho lottato!»

      E poi, in tono più severo, quasi ultimo resultato di tristissima esperienza: «Solo il possesso rende felici; tutto il resto è illusione».

      Io però protestavo internamente:

      — No, non è illusione.

       * * *

      Si accorse presto del mio turbamento, e mi sorrideva in faccia con aria maliziosa, non osando apertamente canzonarmi. Richiamava spesso il discorso sul mio ideale, com'ella diceva, e m'interrogava con curiosità, quasi provasse gusto nel delicato tormento che m'infliggeva.

      — Era più bassa, più gracile di me?... — mi domandò una volta ex abrupto, mentre appoggiata al mio braccio saliva uno dei tanti mucchi di sabbia del piccolo Sahara della Marza.

      — Più gracile assai.

      — Ed è rimasta gracile sempre?

      — Rivedendola dopo un lustro, mi parve soltanto un po' più pallida e assai più triste.

      — Non è felice?

      — Ahimè, poverina! — esclamai.

      — La colpa è un po' anche sua, — riprese, sorridendo e piegando di lato il collo per guardarmi negli occhi, mentre agitava in aria l'indice della mano sinistra con gesto accusatore.

      — Dica del caso, delle circostanze; eravamo così ragazzi tutti e due!

      — L'avrà un po' consolata.... dopo.

      — Oh, no! — dissi trasalendo, e levando alta la fronte. — Quella donna è proprio morta per me. Io amo soltanto la ragazza, un ricordo, un fantasma. Infatti, quel che rende il mio sentimento più bello e più orgoglioso della propria purezza è la convinzione che sia ignorato da lei.

      — Che assurdità! — esclamò. — Una donna amata può, se vuole, fingere d'ignorare; ma ignorare davvero....

      — Le assicuro che colei ignora, — insistetti.

      E intanto sentivo battermi il cuore all'idea che quel mio sentimento non vibrasse ignorato. Avrei però voluto sospettarlo io solo.

      La signora Emilia si divertiva a salire, a discendere pei mucchi di sabbia sparsi, come tanti tumuletti, lungo la spiaggia; e col braccio mi spingeva a correre su e giù per quella distesa mobile e gialliccia, deserto in miniatura.

      Vi ritornammo parecchie volte nei giorni seguenti, ora al levar del sole, ora sotto il calore meridiano per formarci un'idea approssimativa del vero deserto, ora al lume di luna.

      I raggi lunari, rischiarando con luce bianchiccia quella vasta e brulla estensione di sabbia, davano risalto con le ombre a tutte le disuguaglianze del terreno; e il luogo assumeva così un aspetto strano e pauroso, che di giorno nessuno avrebbe immaginato. Le onde del mare, battendo svogliatamente sulla spiaggia poco discosta, facevano un perfetto contrasto col silenzio che incombeva dall'altro lato su la solitudine desolata.

      Pareva di essere chi sa a quante miglia da ogni creatura vivente, sperduti e senza speranza di soccorso, in mezzo a un oceano di sabbia. La configurazione del terreno, celandone i limiti, contribuiva a far credere immensa quell'estensione di poche miglia.

      Di tanto in tanto la mia compagna lanciava per l'aria cheta un allegro scoppio di risa, che suonava più argentino del solito e vi si perdeva senz'eco.

      Io, quando non ragionavamo, canterellavo. Ella intanto, facendo il giro dei pantani, gettava manate di sabbia fra i giunchi dattorno per far levare le anitre, le folaghe, i gheppi lì rimpiattati.

      In verità, non mi divertivo molto.

      Nei giorni precedenti mi ero più volte sorpreso a guardarla intensissimamente con sentimento di dolce compiacenza e che non scaturiva soltanto dalla sua somiglianza con Jela.

      Ed ora, in quel posto, tornando silenziosi verso casa, avvertivo con stizza che il calore del suo braccio, appoggiato con stanchezza sul mio, mi faceva pensare a qualcosa di vagamente sensuale che s'infiltrava nella pura atmosfera del mio spirito e cominciava ad attirarlo.

       Pur troppo era vero!

      La signora Emilia mi aveva rapidamente svegliato nel cuore tutti gli ardori dei miei sedici anni e con la stessa freschezza d'una volta. No, non vivevo insieme con lei alla Marza, ma con la mia Jela evocata da misteriosa potenza, che soltanto ne aveva alterato alquanto i lineamenti e le gracili forme. Capivo benissimo però che, oltre quei sentimenti, se n'erano sviluppati dei nuovi, collegati con quegli altri quasi per completarli; temevo appunto di questi.

      Alcune parole, alcune frasi della signora Emilia, mi turbavano da qualche giorno in modo incredibile. Certe occhiate, certi sorrisi, certe inflessioni della voce che più vivamente riflettevano o rammentavano, anche da lontano, le occhiate, i sorrisi, le inflessioni della voce di Jela, mi davano scosse, tremiti, languori, che talvolta arrivavano fino a spossarmi. Ed io soffrivo di questo sovrapporsi di lei, di questo suo impertinente sostituirsi alla cara immagine, che formava da tanti anni il culto più sacro della mia vita.

      Soffrivo, ma non resistevo, non reagivo; mi lasciavo sopraffare. Provavo qualcosa di simile a quelle tiepide correnti sottomarine delle quali parlano i pescatori di corallo, che intorpidiscono nelle mute profondità delle acque il sentimento della vita e fanno assaporare la morte quasi delizia ineffabile. Sentivo che ormai quel fascino mi avviluppava in modo da non poterne più vincere la malefica azione.

      — E dopo? — mi domandai una sera indignato, piantandomi di rimpetto a la mia ombra proiettata dal lume sul muro bianco della stanza.

      E siccome l'ombra non rispondeva:

      — Sei un vile! — dissi a quell'altro me stesso che vedevo coll'immaginazione confuso ed abbiosciato là davanti.

       E andavo su e giù, tirando fantastici buffi di fumo dal sigaro spento.

      — Miserabile! — continuavo — Tu carezzi desiderii, che non osi confessare nemmeno a te stesso. Già non sei più sicuro se, tradendo la fiducia del tuo amico, commetti un'indegna azione!

      E tornavo a passeggiare, stritolando fra l'indice e il pollice la punta del sigaro col pretesto di ravvivarlo.

      Quelle parole mi avevano fatto arrossire quasi fossero state pronunziate da un'altra persona, da un amico severo, venerato per gli anni e per l'esperienza della vita. E cercavo di scusarmi; e mentalmente rispondevo:

      — Via! Tu esageri. Tradire la fiducia del mio amico? Nemmeno per ridere. Volessi pure, quella donna......

      Ma non completavo il periodo. Sentivo di mentire e mi fermavo esitando, un po' per persuadermi che forse m'illudevo, un po' per l'involontaria compiacenza di scoprire che pur troppo non m'ero illuso.

      Quella donna non sarebbe stata forte, lo indovinavo. Da che? Da cento lievi e quasi impercettibili indizi, che sarebbero sfuggiti a qualunque occhio meno interessato del mio.

      — E dopo? — ripetevo con insistenza.

      E rimanevo sbalordito, addolorato, vedendo


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