Come l'onda... Novelle. Luigi Capuana

Come l'onda... Novelle - Luigi Capuana


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mio malgrado, da incentivo per sentimenti affatto opposti a quelli ispiratimi da lei.

      — Che debolezza! Che vigliaccheria!

      Oh, no! Volevo essere uomo; resistere, vincere anche sfidando il pericolo; dovevo al culto della mia Jela questa riparazione sentimentale.

      E andai a letto consolato.

       * * *

      Avevo noleggiato una barca, che venne a prenderci allo spuntare del sole.

      Un marinaio, con larghi e corti calzoni rimboccati fin sopra il ginocchio, ci portò in collo di peso, una dietro all'altro; poi diede una spinta alla poppa, e la barca mezza arenata si cullò tosto mollemente su le onde dopo aver traballato un pochino pel peso di lui, che vi era saltato dentro.

      Il mare appariva tranquillo. Larghi riflessi, verdognoli, azzurri, rossastri lo colorivano in diverse direzioni, divisi da orli fosforescenti; le varie correnti marine lo striavano a fior d'onda, come solchi di rotaie in un immenso piazzale.

      La signora Emilia batteva le mani e dava in esclamazioni di sorpresa e di gioia. L'acqua le produceva fascini violenti, che le lampeggiavano nelle pupille con incredibile vivacità. Di quando in quando, a un'ondata che turbava il moto regolare della barca, ella cacciava un grido — non sapevo ben discernere se di paura o di piacere — e diceva, ridendo:

      — Se si cascasse in mare?

      E scoteva la testa e la persona quasi già provasse i brividi del freddo contatto dell'acqua.

      Io la guardavo tranquillo, dominando le mie impressioni, lieto di vedere che potevo opporre qualcosa alle involontarie seduzioni di lei. I miei sensi erano calmi, l'equilibrio del mio spirito perfetto; ma questa contentezza interiore doveva certamente tradurmisi sul volto in insolita serietà, e in quel raccoglimento che mi faceva star zitto.

      — Si annoia? — ella disse dopo un lungo silenzio.

      — No, signora.

       — Il suo pensiero non è qui. Lei non dice neppure una parola!

      — I grandi spettacoli della Natura rendono muti.

      — Mi dispiace che debba annoiarsi per causa mia. Anche l'amicizia ha i suoi pesi.

      — Non questa volta.

      Approdammo all'isoletta dei Porri, largo scoglio quasi piano, sollevato di qualche metro fuori del mare che vi balla attorno spumante. Lo percorremmo in pochi minuti, poi ci sedemmo nel centro, dirimpetto alla spiaggia. La campagna si stendeva laggiù, laggiù, con linee larghe, con mille sfumature di verde, che si armonizzavano insieme. Lontano, in fondo, dentro una nuvola di vapori dorati, torreggiavano nel cielo opalino le cupole e i campanili di Spaccaforno infiammati dal sole. Il mare rumoreggiava da ogni lato dell'isoletta con urli e scrosci interrotti. Di tratto in tratto vedevamo qua e là sollevarsi gli spruzzi iridati dei cavalloni irrompenti sui fianchi più bassi.

      — Ecco un posto, — ella disse, — dove abiterei volentieri, e dove vorrei morire tutt'a un colpo, ingoiata dal mare quasi prima di accorgermene.

      — Che desiderii strani! — esclamai ridendo. — E vorrebbe vivervi sola?

      — Oh! no, — rispose. — Dicono che soli non si starebbe bene neppure in Paradiso. In due, con un'altra persona che avesse il medesimo gusto, che trovasse nella mia compagnia, come io nella sua, bastevole ragione per non rimpiangere la società.... Sciocchezze, è vero? — soggiunse sospirando. — Invece bisogna contentarsi della dura realtà. Ecco: pel mio cuore, questo misero scoglio potrebbe valere tutto l'universo. Ma pel cuore di un uomo? Come rende triste il pensiero che noi, nella vita dell'uomo, possiamo appena appena essere un accessorio!

       — Scusi, — dissi. — Non è sempre così. Vi sono donne che riempiono tutta la nostra vita del loro benefico influsso; che diventano la parte migliore dell'anima nostra, del nostro spirito, e sopravvivono in noi anche quando le relazioni esterne sono rotte per sempre.

      — Jela! — esclamò, fissandomi in volto con uno sguardo in cui sorpresi lampi di dolore e di invidia.

      Quel nome, pronunciato dalla sua bocca, mi diede i brividi.

      Vedendo che tacevo, la signora Emilia mi prese amichevolmente una mano, e con accento interrotto, pieno di rimpianto e di affetto represso, continuò:

      — Come dev'esser felice quella donna! Darei metà della mia vita per essere amata allo stesso modo. Dio mio! Sento già tremare questa mano al solo ricordo, e veggo quegli occhi inumidirsi.... E son già dodici anni! Ma quanti dolori, quante tristezze! Felicità costata troppo cara e che, certamente, non esisterebbe, se invece di essere stati proprio a tempo divisi, avessero potuto vivere uniti, o lei l'avesse posseduta un istante, tutta sua, fra le braccia. Ma, caso o no, quella donna intanto dev'essere troppo felice. Chi non cangerebbe la propria con la sorte di lei? Chi non vorrebbe provare la sua tremenda voluttà di doversi concedere, col corpo, all'uomo che non ama, e di darsi nel punto stesso, collo spirito, al suo assente adorato?

      — Oh no, no! — interruppi indignato. — È un amore di altro genere. Ella non lo intende... non può intenderlo.

      E mi rizzai in piedi. Avevo bisogno di essere scortese.

      La tremenda voluttà di doversi concedere!...

      Queste parole mi eran suonate all'orecchio come una profanazione. Oh! Colei mesceva la sua bassa sensualità a un sentimento che non avrebbe appannato il cuore più puro....

      Sì, avevo bisogno di essere scortese. E non solo per protestare, ma anche per difendermi dalle strane impressioni della sua voce, che mi s'insinuavano per tutto il corpo vellicando dolcemente i nervi con irritazione delicata.

      Temevo di dimenticare troppo presto le belle risoluzioni della notte.

      Fu un istante.

      Tornai a sedermi; volevo correggere quell'impeto troppo violento che l'aveva un po' mortificata.

      — Perdoni, — le dissi, — oggi sono nervoso. Il ricordo di Jela mi turba. Senta: ho le mani diaccie. E toccai le sue.

      Ella mi guardava ammirando, con le sopracciglia un po' aggrottate, le labbra strette e la faccia alquanto sollevata verso di me per fissarmi meglio.

      Era Jela, proprio Jela!

      Distolsi gli occhi.

       * * *

      Me la prendevo con Paolo che non veniva.

      I giorni passavano apparentemente uniformi; ma il mio cuore era sconvolto. Non lottavo più, non resistevo; ragionavo e tentavo scusare agli occhi della coscienza quella vigliaccheria.

      Non ero ancora arrivato al punto di dimenticare i miei doveri di amico; non osavo ancora pensare che, come tant'altri, quest'amore avrebbe potuto scivolare anch'esso sul mio cuore senza lasciarvi segno, senza ledere i diritti del purissimo affetto di Jela, no, questo ragionamento mi sarebbe parso un'empietà. La rassomiglianza della signora Emilia con Jela era così grande; il sentimento (perchè non dirlo?) che colei mi ispirava era un così vivo riflesso del ricordo di questa, da non darmi il coraggio di giustificarne ai miei occhi neppure la possibilità.

      Mi limitavo a concedere che non era poi gran delitto riamare Jela in quel suo ritratto vivente; riamarla con la stessa semplicità di cuore, e la stessa purezza dei miei sedici anni. Mi sembrava anzi che il culto del mio spirito per lei si sarebbe rinfocolato meglio al contatto di quella realtà; una seconda giovinezza mi sarebbe rifiorita nel cuore.

      La signora Emilia era troppo esperta della vita da non comprendere quel che avveniva nel mio interno. Se ne compiaceva, si divertiva: veniva, alla sua volta, allettata dalla stranezza del caso e dall'amor proprio così fortemente lusingato.

      E Paolo? E la fuga? E il loro amore?

      Ahimè! Niente è più vero del triste proverbio: Gli assenti hanno torto.

      Già ella forse non si accorgeva di venir meno al suo dovere: forse, al pari di me,


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