Una sfida al Polo. Emilio Salgari

Una sfida al Polo - Emilio Salgari


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più.

      — Gentlemen, — disse allora il partner, con voce grave. — Siete pronti?

      — Sì, — risposero all'unisono il yankee ed il canadese.

      — Voi non entrerete in questa sala se non dopo trascorsi cinque minuti.

      — Benissimo.

      — Che Dio vi guardi. Mister Torpon seguitemi nella stanza di destra.

      — E voi, signor di Montcalm, seguitemi in quella di sinistra, — disse il maestro di boxe di Montcalm.

      I due rivali, con un moto spontaneo si stesero la destra e si diedero una vigorosa stretta, poi seguirono i loro partners senza scambiarsi una parola.

      Subito le lampade elettriche furono spente e la vasta sala s'immerse in una oscurità profondissima.

       Indice

      Gli americani, popolo eccessivamente frettoloso, che non ama perdere tempo nemmeno nel mangiare, vanno per le spiccie nel definire le loro questioni d'onore.

      Le regole della cavalleria sono affatto sconosciute presso di loro ed i maestri di scherma, così di spada come di sciabola, hanno fatto sempre magrissima fortuna presso quel popolo il quale preferisce impiegare qualche minuto che può rubare agli affari, a qualche lezione di boxe.

      Il tempo è moneta: ecco la loro divisa. Quindi niente tempo da perdere nelle sale di scherma.

      Nondimeno, al pari di tutti gli altri popoli, si battono anche i yankee, ed i duelli sono tutt'altro che rari anche negli Stati dell'Unione.

      Per lo più preferiscono una buona partita di boxe, ma quando si tratta di cose gravissime si mandano all'altro mondo senza costole fracassate o denti rotti o teste peste in modo spaventevole.

      Allora, per essere più sicuri, ricorrono alle armi da fuoco ed al bowie-knife, contando più sulla fortuna che sull'abilità personale, che di rado posseggono.

      Negli Stati dell'Ovest i duellanti montano a cavallo armati d'un buon winchester a dodici colpi, si portano nella foresta più vicina, lanciano i loro destrieri a corsa sfrenata e si fucilano reciprocamente, nè cessano finchè l'uno o l'altro non vuoti l'arcione morto o moribondo.

      Negli Stati dell'Est, vanno più per le spiccie. Si prendono due pistole esattamente eguali, se ne carica una sola, si fa scegliere ai due avversari in una stanza oscura ed ognuno è obbligato a puntarsela al cuore od alla tempia e far scattare il grilletto.

      Tanto peggio per quel disgraziato che ha avuta la sfortuna di scegliere quella contenente la palla che lo manderà diritto a fare la conoscenza con messer Caronte.

      Più terribile, più emozionante invece è il duello col bowie-knife, quantunque di esito più incerto.

      I due rivali entrano per due diverse porte, a piedi nudi, in una stanza perfettamente oscura, armati del loro terribile coltellaccio, si cercano brancolando silenziosamente fra le tenebre e quando s'incontrano si accoltellano all'impazzata.

      Tanto peggio per quello che ne prende di più o a cui arriva una puntata al cuore od alla gola, che tronchi la carotide.

      ················

      Come abbiamo detto, il canadese era uscito dalla porta di sinistra assieme al suo maestro di boxe, entrando in una stanza che sembrava piuttosto un gabinetto per fumatori e che era ancora illuminata, poi aveva subito disposto su un tavolino laccato alla giapponese il suo cronometro d'oro per contare i cinque minuti.

      Quantunque potesse trovarsi sull'orlo della tomba, non ignorando d'aver da fare con un avversario risoluto e coraggioso, appariva tranquillissimo.

      Il suo partner gli aveva preso subito il polso della mano destra, tenendo gli occhi fissi sulle lancette dell'orologio.

      — Bene, — disse, facendo schioccare la lingua. — Batte regolarmente ed anche il vostro cuore deve funzionare come al solito.

      Sono soddisfatto del mio allievo.

      — Ne dubitavate? — chiese il canadese, sorridendo leggiermente.

      — Oh no, ma questi duelli americani, impegnati fra una profonda oscurità, devono produrre una grande impressione anche sugli animi più risoluti.

      — Forse, — rispose il canadese, il quale stava togliendosi le scarpe.

      — Volete un buon consiglio, signor di Montcalm?

      — Dite pure.

      — Appena entrate, appoggiatevi alla parete e lasciate che l'avversario vi cerchi.

      — E se mister Torpon facesse altrettanto?

      — Allora marciate, come meglio potrete, verso il centro della sala e là aspettate che il vostro avversario si tradisca o con un respiro, o con uno strofinìo.

      Non seguite le pareti, ve lo raccomando. Sareste costretto ad appoggiarvi con una mano, e quel rumore, per quanto lieve, potrebbe allarmare l'avversario.

      — Grazie dei vostri consigli.

      — Avvolgete ora il vostro braccio sinistro colla vostra giacca e vibrate il colpo dall'alto in basso, essendo voi più alto di mister Torpon.

      Se non lo ucciderete sul colpo, gli produrrete una ferita tale da metterlo subito fuori di combattimento.

      Mi avete capito?

      — Sì, maestro, — rispose il canadese.

      Il partner lanciò un altro sguardo sul cronometro.

      — Otto ore e trentacinque minuti meno tre secondi. È il momento d'entrare.

      — Sono pronto: spegnete la lampada elettrica ed apritemi la porta senza far rumore.

      — Qua una buona stretta di mano, signor di Montcalm, — disse il maestro, con voce vivamente commossa. — Sangue freddo e colpo sicuro. —

      Si strinsero la mano, la porta fu aperta, poi la lampada spenta, ed il canadese entrò nella tenebrosa sala, in punta dei piedi, impugnando solidamente il bowie-knife e riparandosi il petto col braccio sinistro difeso dalla giacca strettamente avvolta.

      Era già entrato l'americano e si era già messo in agguato? Ecco due terribili, angosciose domande, che non potevano avere per il momento nessuna risposta.

      Il canadese, come l'aveva consigliato il suo maestro, fece tre o quattro passi seguendo la parete, poi si fermò, avendo trovato un ostacolo.

      Doveva essere il pianoforte, l'unico mobile che ingombrava quella vasta sala che pareva fatta appositamente per i duelli americani.

      — Aspettiamolo, — mormorò fra sè il signor di Montcalm.

      Si appoggiò alla parete senza produrre il menomo rumore, raccogliendosi su sè stesso come una tigre che si prepara ad avventarsi sulla preda, e si mise in ascolto, trattenendo il respiro.

      Dov'era mister Torpon? Chi poteva dirlo? S'avanzava cautamente attraverso la sala, col coltello alzato, pronto a vibrare il colpo o stava seguendo le pareti? Quanto avrebbe dato per saperlo.

      Invano i suoi occhi cercavano di forare le tenebre, colla speranza di scoprire, almeno vagamente, l'ombra del suo avversario; invano concentrava tutti i suoi sensi nell'udito, colla speranza di sorprendere uno strofinìo, un sospiro, un qualche rumore che lo tradisse.

      Il suo cuore cominciava a battere forte forte e così pure battevano, febbrilmente, le sue tempie. L'ansietà del pericolo che non sapeva da quale parte potesse giungere, lo vinceva, eppure quel canadese più di cento volte aveva affrontato gli orsi neri e bruno-giallastri delle immense foreste circondanti i laghi e le formidabili corna dei caribon, senza tremare.


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