Una sfida al Polo. Emilio Salgari

Una sfida al Polo - Emilio Salgari


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Non dico di no.

      — Affascinante.

      — Se tale non fosse, già da lungo tempo ve l'avrei abbandonata. Disgraziatamente mi ha bruciato il cuore e sento ormai che non potrei rassegnarmi a vivere senza di lei.

      — Allora si carica una buona rivoltella e si va a dimenticarla all'altro mondo.

      — Il consiglio mi pare buono, però vorrei che prima foste voi a metterlo in esecuzione.

      — Ah no, signor mio, — disse l'americano, con vivacità. — Provate prima voi.

      — Per ora no, quantunque io abbia la certezza che quella donna non possa far felice nessun uomo.

      — Allora si lascia andare.

      — No.

      — È un puntiglio allora il vostro.

      — Non lo so, ma mi pare che questo non sia il luogo per occuparci dei nostri affari, mister Torpon.

      — Avete ragione, signor di Montcalm. Io mi ero proposto di offrirvi una cena e di mangiarcela assieme ai nostri partners. Accettate?

      — Con tutto il piacere e tanto più che stamane non ho fatto che una leggierissima colazione per mantenermi più agile.

      — Per darmene di più, — disse l'americano, ridendo. — Venite, signori. —

      Entrarono nell'albergo, passando dinanzi ad una mezza dozzina di camerieri negri, vestiti correttamente di nero e con dei collettoni candidissimi che li tenevano come impiccati, ed entrarono in una magnifica e spaziosissima sala, illuminata sfarzosamente da un centinaio di lampade elettriche, prendendo posto dinanzi ad una tavola isolata, situata verso un angolo.

      Essendovi poche persone, potevano parlare a loro agio senza poter essere disturbati, nè uditi.

      L'yankee, abituato a fare le cose in grande, ordinò una cena degna d'un milionario come era lui, poi mentre si faceva servire, tanto per aguzzare maggiormente l'appetito, un paio di bottiglie di vino del Reno a cinque dollari l'una e cinque dozzine di gamberi di California a venti cents l'uno, disse:

      — Signor di Montcalm, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta di seguirmi su territorio americano per definire una buona volta la nostra eterna questione, poichè vi dichiaro francamente che io sono estremamente stanco dei brutti giuochi che ci fa continuamente il destino.

      — Ed io non meno di voi, — rispose il canadese.

      — Voi non rinuncierete mai al possesso di miss Ellen Perkins?

      — Mai, dovessi affrontare mille volte la morte.

      — Nemmeno se vi offrissi dei milioni?

      — Oh!... Meno che meno. Un Montcalm non si lascia comperare dai dollari.

      — Vi stimo doppiamente, parola d'yankee.

      — Suvvia, dove volete andare a finire? — chiese il canadese, facendo un gesto d'impazienza.

      — Io vorrei farvi un'altra proposta.

      — Di ritentare la partita di boxe?

      — Avremmo delle altre noie da parte delle autorità e forse nessun risultato decisivo, poichè siamo, credo, della medesima forza anche in questo campo dello sport. Vorrei qualche cosa di più serio.

      — Dite pure.

      — Un giuoco, per esempio, che finisse col mandare me o voi a fare la conoscenza con Caronte e colla sua barca, ammesso che navighi ancora sulle nere acque dello Stige.

      .... a fare la conoscenza con Caronte e colla sua barca, ammesso che navighi ancora sulle nere acque dello Stige. (Cap. III).

      — Vi preme di sopprimermi?

      — Potreste essere invece voi il fortunato.

      — Continuate, mister Torpon. —

      L'americano sgusciò il suo dodicesimo gambero, lo inghiottì d'un colpo versandoci dietro un bicchiere di vino, poi disse con voce grave:

      — Accettereste, signor di Montcalm, un duello all'americana? —

      Il canadese era rimasto silenzioso, mentre i due partners erano diventati assai pallidi.

      L'americano lasciò trascorrere qualche mezzo minuto, poi disse:

      — Signor di Montcalm, attendo una vostra risposta. —

      Il canadese si scosse.

      Vuotò lentamente il bicchiere che gli stava dinanzi, guardando fisso nel fondo, poi rispose:

      — Avrei preferito un duello alla spada, alla sciabola od alla pistola, mister Torpon.

      — E il destino che ci sta sempre addosso? Sarei sicuro che con quelle armi una partita d'onore non avrebbe buon esito per noi.

      Proviamo a batterci nell'oscurità. Si dice che la fortuna sia cieca; chissà che non lo sia anche il destino.

      — Lo volete proprio, mister Torpon? — chiese il canadese, con voce tranquilla.

      — Sì, signor di Montcalm. Noi siamo giunti ad un tal punto che è meglio che uno di noi scompaia per sempre dalla superficie del globo.

      — E dove ci batteremo?

      — Qui.

      — Quando?

      — Questa sera stessa, se non vi rincresce.

      — No, perchè penso anch'io che sarebbe meglio saldare al più presto il nostro conto.

      Senza testimoni, è vero?

      — Ci aspetteranno fuori: non abbiamo i nostri maestri di boxe? Accettate, è vero, signori, di aiutarci? —

      I due partners s'inchinarono, facendo un cenno d'assentimento.

      — Affitteremo tutto l'appartamento dell'ultimo piano che m'immagino sarà vuoto, — continuò l'yankee, — perchè nessuno venga a disturbare i nostri affari.

      — Il proprietario non sospetterà qualche cosa e non avvertirà quei dannati policemen? — osservò il maestro di boxe del canadese.

      — Lasciate fare a me, mister, — rispose il yankee. — E poi il dollaro può tutto, almeno negli Stati dell'Unione.

      — E le armi? — chiese il signor di Montcalm.

      — Oh!... Non sarà difficile trovare due solidi bowie-knife press'a poco uguali.

      Gli armaiuoli non mancano ad Oswego e s'incaricheranno i nostri partners di trovarceli.

      Sono appena le sei e si chiude un po' tardi nelle nostre città.

      Ora signori ceniamo da buoni amici, allegramente, e non manchiamo di fare un brindisi a quello che domani mattina andrà a portare i nostri saluti a Caronte. —

      Quattro negri avevano cominciato a portare, su dei grandi ed artistici vassoi d'argento, delle vivande diverse che esalavano dei profumi da far venire l'acquolina in bocca anche ad un morto, mentre un quinto disponeva sulla tavola, dinanzi a ciascun commensale, delle bottiglie polverose che portavano delle marche celebri.

      I quattro uomini, tornati improvvisamente gai, diedero subito un formidabile assalto alle diverse portate, scherzando amabilmente e deridendo i negri. Pareva che avessero già dimenticato che uno di loro stava ingollando il suo ultimo pasto.

      Suonavano le sette alla ricca pendola dorata, collocata all'estremità del vasto salone, quando mister Torpon si alzò, dicendo:

      — Vado ad accomodare l'affare col proprietario, mentre la bottiglia di champagne gela per brindare al morto.

      —


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