Col fuoco non si scherza. Emilio De Marchi

Col fuoco non si scherza - Emilio De Marchi


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per dodici anni ceduto umilmente al suo dovere di moglie e di matrigna, portando nell'adempimento del suo dovere non sempre facile quella docile indulgenza e quella riservatezza che nega a sè stessa tutto quel che concede agli altri.

      Adorata dal marito tiranno, aveva finito col conquistare anche la benevolenza e la stima di Ezio, che si avviava alla sua volta a essere un tiranno dispotico di deboli cuori.

      Massimo ritrovò queste doti ancor fresche nella bellezza matura di sua cognata. Di mutato non trovò che la carnagione fatta d'una bianchezza un po' stanca che impallidiva di più sotto la massa dei suoi capelli più scoloriti. Ma gli occhi d'un grigio marino avevano ancora tutte le languidezze tenere e affettuose delle creature deboli che disarmano i forti.

      Si fecero molti progetti per le vacanze e si stabilì che tutti sarebbero tornati a far colazione e a passare una giornata in compagnia.

      Massimo, nel risalire il viale fino al cancelletto, si trovò un momento al fianco di lei e si meravigliò di sentirsi così tranquillo e così contento.

      —Ezio è stato buono con me, povero figliuolo, e mi ha fatto provare una commozione di cui non mi sentivo capace. Il merito sarà anche della buona matrigna.

      —Io ci ho poco merito…—balbettò donna Vincenzina, arrossendo.

      —Allora il merito è di Cresti che mi ha persuaso a tornare. Dovrò discorrere anche di lui a lungo: ma ora che siam qui dovremo pur vederci assai spesso; non è vero, Vincenzina?

      —Sicuro, Massimo…—Fu tutto quanto ella potè dirgli per ringraziarlo d'esser venuto: ma glielo disse in un modo così tenero e commovente, che il signor zio fu per vacillare un'altra volta.

      Ezio andò ad accompagnarli un bel tratto fin verso Bolvedro, stando in mezzo a loro due colle braccia infilate nelle loro braccia.

      Vincenzina ritornò colla sorella pel viale del giardino; ma quando fu presso il casino svizzero si fermò improvvisamente e ruppe in un gran pianto.

      —Che cos'hai?—chiese Matilde.

      —Niente.

      —Perchè piangi?

      —Non so.

      —Voi vi siete portati bene. Ezio fu un tesoro. Non è bene forse ch'egli sia tornato e che abbia perdonato?

      —Sì, sì, Tilde: non piango per questo.

      —E allora?

      —Non ti pare ch'egli abbia sofferto?

      —Tutti abbiamo sofferto: ma è sempre bene quel che non finisce peggio. Ora tutt'insieme mi dovete aiutare a maritare quella mia figliuola. Cresti farà presto una domanda, a cui sarebbe peccato non rispondere bene. Flora ha delle idee romantiche per la testa: ma colle idee romantiche non si vive e non si paga la pigione. Cresti è un gentiluomo, è ricco, è un cuore delicato, ama la bambina e Flora stima lui per tutti i suoi meriti. Un matrimonio oggi è diventato necessario, perchè nè si vuole tenere un vecchio amico sulla corda, nè si vuole lasciar Flora al pericolo d'una fantasia sbrigliata. Da qualche giorno mi pare che la sua testa non sia molto a posto: parla, canta, salta per la casa, esce e torna cento volte, si è data alla devozione e parla di regalare un manto nuovo alla Madonna del Soccorso. Suo padre era anche lui un poco così, una testa polacca: la nonna Celina ne ha fatte di peggio. No, così non si deve più andare avanti. Io ho bisogno di tranquillità pei miei dolori e non di avere la tarantella in casa. Tu le devi parlare, tu la devi persuadere: Cresti non aspetta che un nostro segnale per farsi avanti.

      Le due sorelle s'intesero sui modi di pigliar la figliuola in un momento di buone disposizioni. E intanto i due vecchi amici, lasciato Ezio risalivano lentamente la strada del Pioppino. Massimo camminava avanti raccolto ne' suoi vaghi pensieri; Cresti, che gli veniva appresso, chinavasi spesso a raccogliere una foglia di menta, un rametto di timo, o a contemplare una piccola lumaca annicchiata in qualche corteccia: ma avvolgevasi anche lui nel filo di quei teneri pensieri che da un anno andava tessendo alla trama della sua vita. Massimo guardava più al passato, Cresti all'avvenire, e camminando così fuor della loro strada, non sentivano nè il sole infocato che faceva arrabbiare le cicale, nè i ciottoli che ingombravano il sentiero.

      Quando per una viottola in mezzo alle vigne sbucarono all'ombra della Cappelletta della povera mamma, Massimo Bagliani arso e trafelato si fermò, si asciugò la testa e il collo grondanti, e ruppe improvvisamente in una risata sonora, che fece tremare il volume della sua mole diplomatica.

      —Che c'è da ridere?—chiese l'amico.

      —Lasciami ridere, caro: è una facezia.

      —Che cosa?

      —Questa vita.

      —Ehm! Sei forse pentito d'esser disceso a Villa Serena?

      —Son felice, Cresti: tu sei un tesoro.

      —T'avevo detto che l'avresti trovata più bella! queste donne senza nervi migliorano stagionando.

      —Tu sei cattivo con lei, Cresti…

      —Dodici anni di schiavitù non le hanno fatto male. Va a credere alle donne.

      —E perchè mi tormenti allora colla Flora?—soggiunge Massimo, ripigliando quel suo ridere convulso che finì col strizzargli le lagrimette.—Sai perchè rido, Cresti?

      —Che devo saper io?

      —Penso che Vincenzina avrà trovato che io son diventato l'astuccio di me stesso: che…? che?.., altro che astuccio: il cofano, la cassa della mummia. Meno male che la vita è una facezia…

      E su questa sentenza i due amici camminarono in silenzio verso al

       Pioppino.

       Indice

      Una visita.

      Flora da quel giorno famoso in cui Ezio l'ebbe tre volte baciata sui capelli, cominciò a discorrere con la mamma e colla Regina del suo dovere di regalare un nuovo manto alla Madonna del Soccorso per ringraziare la Benedetta d'averla salvata dal fulmine.

      La saetta era caduta poco fuori del giardino e aveva scavezzato un antico olivo vecchio forse di duecento anni: ma questo era nulla al paragone di quei tre fulmini che erano discesi nel suo cuore.

      Ezio l'amava, Ezio l'amava, Ezio l'amava!

      La Madonna meritava non un manto solamente, ma una corona d'oro tempestata di diamanti. Qualche cosa bisognava ch'ella facesse dal momento che il restar rinchiusa in casa era diventato per lei quasi un supplizio.

      Quel troppo di assoluto e quasi di asciutto, che era nell'espressione del suo volto fatto di linee sottili e lunghe, dalle labbra tumidette, dagli occhi pungenti, si spianò, si allargò, per così dire, in una grazia di pensieri soddisfatti e fioriti, di benevolenza tenera, di bontà amorosa, piena d'indulgenza e di carezze. E non il volto soltanto, ma tutta la persona, si abbellì d'una mollezza più femminile, che faceva comparir meglio i vestiti e toglieva al suo portamento quel non so che di rigido e di soldatesco, che ricordava troppo la figlia del colonnello.

      Ora che tra lor due s'era fatta una luce solare temeva ch'egli avesse a veder meglio le macchie della sua povertà morale. Non si sentiva più così forte come prima. Una gran scossa interna aveva spezzato il macigno della sua vita arida, senza verde e senza fiori e dal fondo scaturivano in lei ruscelli da tutte le parti.

      Anche le cose di fuori avevano tutt'altri colori. Il lago pareva diventato più azzurro, più d'accordo con lei, le montagne più trasparenti: le campane dicevano cose nuove e commoventi: i gridi dei bambini sulla piazzuola, così noiosi prima, facevano eco adesso ai cento fanciulli allegri che giocavano in lei. Perfino il trombone del sarto, quel terribile trombone che urtava continuamente colle sue note lacerate le case del piccolo golfo, era diventato anch'esso più sopportabile dacchè vi sentiva il soffio d'un uomo felice. Solamente


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